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  • Romeo Castiglione 2:28 pm il 13 March 2016 Permalink | Rispondi
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    Il viaggio elettorale di Francesco De Sanctis 

    Un viaggio elettorale Francesco De SanctisVibrante, affascinante. Il Viaggio elettorale di De Sanctis è un fiume saturo di poesia: è l’Ofanto magico, un corso d’acqua ancestrale. Ho accarezzato la copertina con la mano destra l’altro ieri. Avevo appena visto in tv un servizio dedicato alla vecchia linea ferroviaria Avellino Rocchetta Sant’Antonio. I treni a vapore, la voce di Mia Martini, paesaggi desolati e remoti. Ah, com’è bella l’Alta Irpinia. Com’è bello il binario non triste; com’è bello il treno regionale non affollato.

    Gennaio 1875, inverno, Irpinia, ritorno alle origini. Preme dentro di me quest’opera preziosa. La conservo. È letteratura popolare, prosa viva. Ho letto il viaggio alla maniera di un romanzo e l’ho riletto e riletto ancora. Parole dolci, stilemi dialettali, esclamazioni,vezzeggiativi. Tra le righe ho trovato un De Sanctis stanco, umano, pensieroso. Dorme poco, medita sulla vacuità della vita. «Dove sono i miei amori, – scrisse– i miei ideali? Chi mi ridà la mia giovinezza? Quando viene la morte, già molta parte di noi è morta. Moriamo a poco a poco, visti prima morire padre e madre, e maestri, e amici, e compagni». De Sanctis scrive sui fogli il ricordo dei sogni. Visioni oniriche, echi di solitudine. «Ero stanco a morte, ma il cervello non voleva dormire. Pareva una pentola che bolliva, e cacciava vapori, e i vapori si condensavano, prendevano forme varie. Sentivo parlare, vedevo in quella tenebra raggi di luce. Caso simile mi successe la prima notte nelle prigioni di Castel dell’Ovo, e molte altre volte».

    Nel libro emerge un’Irpina dilaniata dalle contrapposizioni politiche; viene a galla un’Irpinia umiliata dalle lotte tra bande rivali (capozziani e soldiani). Ieri regnava la clientela e oggi regna la super clientela. Il potere cambia pelle ma è sempre lo stesso (galantuomini, democristiani, post democristiani, comunisti, post comunisti, democratici). Il letterato di Morra fu eletto al Parlamento del Regno d’Italia ma combatté contro i mulini a vento. Scelse il collegio di Lacedonia. Probabilmente i suoi discorsi furono leggermente retorici. Egli fu un antesignano degli intellettuali meridionalisti.

    Il suo viaggio è una corda tesa tra il tempo perduto e il miraggio. Balconi, sguardo perso in piena notte e all’alba. Il Vulture, le cime innevate, le immagini sfocate, Melfi nascosta nel buio. E vedo con la mente Calitri la nebbiosa: il paesaggio si stende sul letto. Nebbia grigia, aria di neve, cielo cupo; le donne calitrane con lo scialle accarezzano le nuvole. Sorgerà domani il nuovo sole, il Sole di Calitri. E Bisaccia, il castello e la stanza del Tasso. E Andretta e Lacedonia. E Rocchetta… Rocchetta la poetica: serenate, canzoni, odori di Puglia. Fuochi d’artificio, Cairano in festa, Cairano senza la donnaccia, Cairano bellissima. E Teora impenetrabile e soltanto sfiorata.

    È un ritorno al passato. «Date la patria all’esule». Così disse Francesco De Sanctis. E lo disse con sincerità. E lo scrisse a Virginia, a Virginia Basco in una lettera commovente. «Non so cosa sei divenuta, ignoro la tua vita; sento che in te ci dee essere ancora molto di buono, poi che ti ricordi del tuo vecchio maestro. La Virginia a cui scrivo è quella giovinetta, che mi sta sempre innanzi, con quegli occhi dolci, con quella voce insinuante, a cui l’esule raccontava le sue pene, ricordava la patria lontana. E tu commossa mi dicevi: poverino!». Sì. Diceva poverino. Ma lui scriveva, scriveva. «Scrivere mi riesce difficile, perché non metto in carta, se non dopo lungo battagliare con me, e se vengono pentimenti […], quel foglio mi pare brutto, e lo stracci e da capo». Parole stupende.

     

     
  • Romeo Castiglione 9:34 am il 11 October 2015 Permalink | Rispondi
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    Ferlaino e Achille Lauro, il comandante tradito 

    La copertina del libroFu un politico innovativo il Comandante. Oggi avrebbe scelto il centrodestra e apprezzato Forza Italia. Nondimeno pare un politico da Pentapartito. Achille Lauro, se non fosse morto, avrebbe continuato a fare politica. Egli non fu soltanto un uomo di “destra”; fu un monarchico anticomunista disponibile al compromesso. Fu uno stratega. Seguì con poca convinzione Alfredo Covelli. Il Comandante aderì per inerzia al Movimento Sociale Italiano e a Democrazia Nazionale. Avrebbe voluto portare il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica all’interno del Partito Socialista Democratico Italiano. Ma non ci riuscì. Il Pentapartito è la dimensione ideale del Comandante. Egli avrebbe aderito al PLI o al PSDI; avrebbe ricoperto anche il ruolo di ministro con Bettino Craxi. Forse sbaglio. Eppure immagino scenari nuovi.

    Lauro è sospeso a metà tra Giancarlo Cito e Clemente Mastella. Fu un politico pragmatico. Ingiustamente fu perseguitato e fu criticato dalla sinistra. Guardò sempre al centro: inquadrò il centro politico alla maniera di uno spazio vitale. Ribadì le sue teorie a Napoli nel corso di un congresso regionale del PDIUM. Attenzione, Lauro avrebbe voluto occupare uno spazio al centro ma non aderì mai alla Democrazia Cristiana. Il laurismo fu contraddistinto dalla trasversalità. Oggi è un “laurino” chi decide, agisce e detta le regole del gioco. Il “laurino” è uno spirito libero: solitamente non ha le tessere di partito e preferisce il civismo. Insomma, non è un gregario. Anche in Irpinia il suo Partito Monarchico Popolare ottenne molti consensi. Aderì al PMP anche l’illustre penalista Alfredo De Marsico. Nei piccoli comuni aprirono tantissime sedi di partito. Apparve il vessillo dei leoni in tanti centri minori.

    Per me il Comandante è un mito. Apprezzo la sua intelligenza, il suo progetto politico. Ho subito acquistato il libro Il Comandante tradito scritto da Corrado Ferlaino con la collaborazione di Toni Iavarone. Il presidente ha dipinto un ritratto a tutto tondo del politico campano. Abbondano le storie sentimentali, i flirt. Ma il lato politico è quello interessante. Almeno dal mio punto di vista. Sì. Lauro fu un sindaco modernissimo, un innovatore, un maestro di comunicazione. Oggi sicuramente avrebbe utilizzato i social network; avrebbe ricoperto le cantonate delle nostre città con i suoi manifesti ultramoderni. Inoltre avrebbe utilizzato i potenti mezzi delle televisioni. Ci sapeva fare allora. Adesso avrebbe osato ancora di più. «Entrò in politica – scrive Ferlaino – nella primavera del 1952, prima sollecitato dalla Democrazia cristiana per avere un alleato a destra, poi in proprio perché, da uomo orgoglioso tornato potente, non voleva fare il “servo sciocco” di nessuno. La sua campagna elettorale, per la quale spese allora più di 500 milioni di lire, fu la prima, clamorosa campagna “all’americana” che si registrò in Italia. Era già stato leader del Partito Monarchico; Napoli nel referendum istituzionale del 3 giugno 1946 s’era schierata per la monarchia con 903.651 voti contro i 242.973 voti per la repubblica. […] Nacque un capopopolo, sicuro, decisionista, sfacciato […] Era vero che i “galoppini” usassero anche del denaro per comprare i voti. Consegnavano agli elettori la metà di una “mille lire”, promettendo l’altra metà in caso di vittoria del Comandante. E lo stesso facevano con le scarpe: una subito e l’altra dopo i risultati del voto. La differenza con le promesse di oggi, è che Lauro usava soldi propri». Sì. Ma chi l’ha tradito? L’ha tradito la Storia. La sua figura è stata messa nell’oblio con troppa facilità, con troppa cattiveria. Pochi hanno evidenziato le sue grandi qualità e la sua intelligenza. Fu un individualista senza freni, un capo carismatico, un amministratore avanguardista. Nessuno ha il coraggio di ammetterlo: egli è stato imitato da tanti politici anche di fede politica opposta. Ferlaino ha perfettamente ragione.

    Achille Lauro fu un genio. Credo che la sua figura meriti una rivalutazione totale. Ha mirato al potere alla maniera di Machiavelli. Il fine, in democrazia, giustifica sempre i mezzi. Involontariamente mise in evidenza il paradosso della democrazia. I voti si contano, pertanto occorre il consenso ampio. Per raggiungerlo bisogna prendere contatto con tutti i cittadini. Non fu il portabandiera della destra fellona; all’inverso fu un uomo di libertà. Per certi aspetti il laurismo è l’antesignano del berlusconismo. Questo parallelismo è stato esaltato anche da Corrado Ferlaino nel suo libro. «Mi sono sempre chiesto – scrive il presidente –se Achille Lauro – quest’uomo convinto assertore delle idee forti, tutt’altro che affine al pensiero debole, con la sua vita ricca di variabili, come una specie di Zelig, e non privo di qualche punta di vanità-, non abbia consentito, con la sua lettura di vita, un’ideale anticipazione dei tempi che verranno molto dopo: parlo dei giorni nostri. E che, paragonandolo a esempio a Silvio Berlusconi, il Cavaliere non abbia percorso itinerari simili a quelli di Lauro. […] Lauro s’è distinto per aver portato in quello scenario politico le istanze popolari del Meridione, azzerando la spinta oltranzista del “qualunquismo”. Mentre Berlusconi passa agli annali della politica come colui che s’è fatto paladino della piccola e media imprenditoria settentrionale, giocando d’anticipo anche sulle istanze certamente più estremiste della Lega Nord. Entrambi hanno conosciuto vittorie elettorali e subito sono stati tacciati di populismo. Come se prendere molti voto fosse un eccesso non un successo. […] Berlusconi piomba in un’epoca di delegittimazione di una classe politica e imprenditoriale (le vicende di Tangentopoli), però non è mai entrato nel PSI di Craxi, buon amico ma ormai verso la decadenza. E non cede nemmeno alle lusinghe della DC della prima repubblica. Fonda il suo movimento: Forza Italia. Accade lo stesso a Lauro. Corteggiato dalla Democrazia cristiana che in cambio gli avrebbe offerto di fare il sindaco di Napoli per altri mandati e dopo, forse, il ministro della marina mercantile. Come Berlusconi, Lauro ha avuto sempre il pallino per l’editoria. […] C’è altro ancora. Berlusconi edificò Milano 2, il Comandante aveva già da anni costruito dal nulla il suo quartiere, il “Rione Lauro”».

    In effetti è così. Il laurismo è stato un ottimo laboratorio politico per la destra italiana. Il Comandante è un “padre spirituale” della destra moderna. Perché no? Il laurismo è un’ideologia politica a tutti gli effetti. La destra laurina è individualista, liberista, anticlericale, antiegualitaria, anarcoide, aristocratica e sottoproletaria. Il Lauro pensiero trae linfa da Tocqueville, da Jünger, da von Hayek, da Cartesio, da Jouvenel e perfino da Evola. In sostanza, è la manifestazione terrena della “monarchia solare”, nonché l’espressione più riuscita della destra ultra soggettivista.

     

     
  • Romeo Castiglione 1:40 pm il 4 October 2015 Permalink | Rispondi
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    Donna Vittoria e quel libro di Cesare Ardini 

    Cesare Ardini Donna Vittoria

    Navigo controcorrente. Cerco la luce divina tra le pieghe di un mondo materiale. Eppure non sono l’unico. Ad esempio ammiro molto Cesare Ardini: lo ammiro per il suo stile, il suo gusto; soprattutto lo ammiro per il suo libro dedicato a donna Vittoria Leone. Avrei voluto scrivere anch’io un libro del genere. Sì, perché adoro i panegirici. Il volume in questione s’intitola Donna Vittoria “amore mio”. È stato pubblicato dall’Istituto Enciclopedico Universale di Padova. Credo che sia un capolavoro assoluto. È una lunghissima lettera d’amore, una poesia impetuosa. Lo dico in partenza. È un libro introvabile. Non è stato mai ristampato. Probabilmente è possibile recuperalo sui siti specializzati. Se non l’avessi trovato in un mercatino dell’usato di Roma, l’avrei certamente cercato nelle biblioteche.

    Per Ardini donna Vittoria è Iside-Sophia, in altre parole è la Dea Ignota del filosofo Massimo Scaligero. L’autore ha accolto dentro di sé Cristo tramite l’intercessione della Vergine. Pertanto egli conosce il mondo. Dante nel Convivio chiama i filosofi alla maniera dei “drudi della donna”. Ardini è un emulo dei fedeli d’amore; in effetti, la donna, nel simbolismo dei fedeli d’amore, raffigura la gnosi, la sapienza esoterica. Nel simbolismo tibetano la sapienza è rappresentata dalla donna. «Si certo. – scrive – Intendo parlare proprio di donna Vittoria, consorte del Presidente della Repubblica italiana. Sono innamorato di lei. È forse un reato? Non lo credo. I sentimenti non si possono condannare. Confesso il mio amore perché non sono il solo ad amare donna Vittoria. Milioni di Italiano l’amano quanto me, forse più di me, ma si vergognano di ammetterlo. Io, nel gridare il mio amore, lo faccio anche nel nome di coloro che, pur amandola, non osano confessarlo. Per cui, tutto quello che scriverò apparterrà anche a milioni di italiano muti per convenienza, per timidezza o per codardia. Amo donna Vittoria sinceramente e mi accontento di essere amato da lei come parte del popolo. E lei il popolo lo ama, ne sono certo […]. Se negli anni cinquanta, fino ai sessanta, si parlava di miracolo economico oggi, negli anni settanta, possiamo affermare di vivere in pieno miracolo sentimentale. Ricorderemo per sempre questi anni in cui il volto dell’Italia, martoriato dal disordine e dalla crisi economica, ha ritrovato il suo antico sorriso perché è comparsa lei, donna Vittoria dolcissima, palpitante, infinitamente bella nella sua serena compostezza».

    L’autore ha raccolto nel libro alcune testimonianze. Hanno amato donna Vittoria i giovani, gli anziani, i corazzieri del Quirinale, le casalinghe. E abbondano le storie, i commenti della gente. Un contadino toscano d’idee monarchiche l’avrebbe voluta come regina e non come moglie del presidente per un semplice fatto: il suo sorriso non è repubblicano, bensì regale. Questo contadino avrebbe voluto mettere la foto della first lady al posto della Madonna. Così la sera, prima di addormentarsi, avrebbe recitato una preghiera. «Donna Vittoria prega per noi!». Ma non è finita qui. Un fabbro palermitano di nome Ciccio realizzò una medaglia con Santa Rosalia da una parte e Donna Vittoria dall’altra.

    È presente nel volume perfino la poesia di un ragazzo, Carlo Labbiato. La poesia è davvero stupenda, nonché sensale. «Un giovane poeta di Milano, – racconta Ardini – Carlo Labbiati, di diciotto anni, le dedicò questi versi che ho trovato nel suo diario dal titolo Il mio Cammino. La tua visione,/ un sogno! Immagine fatta di silenzio:/ non conosco la tua voce./ Odo soltanto/ il canto della tua bellezza,/ che ogni giorno si rinnova/ più forte e più vivo,/ per ridonare vita/ all’anima morente». Purtroppo Carlo Labbiati morì giovanissimo di leucemia. «Lui, – continua Ardini – orfano, trovò nella bellezza e nella dolcezza di lei quel conforto che nessuno seppe mai dargli. Adesso Carlo non c’è più. Sul suo comodino è rimasta la foto di donna Vittoria, vicino a quella della madre». La storia di questo giovane è molto triste. Avverto nei versi una cupezza tragica. Vedo con la mente la sua stanza, il suo comodino, le immagini sacre, le luci delle candele.

    Eppure lo scrittore ha avuto la possibilità di incontrare la moglie del Presidente ma è rimasto in disparte. Ha visto la sua teofania sulla piazzetta di Carpi. L’ha osservata in religioso silenzio. «Donna Vittoria, – racconta – insieme ad alcuni amici era seduta alla mia destra; sorrideva con infinita dolcezza, respirava profondamente l’aria fresca di quel pomeriggio settembrino mentre le sue mani giocavano con un lungo bocchino nero, nel quale era infilata una sigaretta spenta; indossava una camicetta bianca con le maniche corte e un paio di pantaloni color beige; i capelli raccolti dietro, facevano risaltare i lineamenti delicati del suo viso, illuminato da un sorriso giovane; i suoi occhi però erano nascosti da grandi occhiali da sole sfumati. Peccato!». Ebbene sì. È davvero un peccato. Lo scrittore avrebbe voluto parlare con lei; avrebbe voluto, probabilmente, baciarle la mano. Sembra un emulo del giovanissimo innamorato di Malena; anch’egli scruta di nascosto il suo tormento. Sospira, stringe i pugni, chiude gli occhi. La first lady sembra una statua. In fin dei conti le statue sono mute, non hanno nulla da rivelare. Dice il salmista: hanno bocce ma non parlano.

    La moglie del presidente è simile alla turista di San Giovanni Rotondo decritta da Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia. È proprio vero. La bellezza è più forte del nome nella storia. La bellezza è antiegualitaria. Donna Vittoria è la Madonna; Cesare Ardini, invece, è un umile devoto. Purtroppo la nuova mariologia ha ridimensionato il ruolo della Vergine. Ella non è più una Dea, bensì è la prima credente. Se la Madonna fosse davvero la prima credente e non la Dea, non sarebbe possibile conoscere la Bellezza.

     
    • ALESSANDRO PINCI 1:15 PM il 3 Maggio 2017 Permalink | Rispondi

      Cesare Ardini era il papà di mia moglie ed era un uomo unico e incredibilmente innamorato del suo lavoro.
      Ha scritto opere musicali, libri, poesie, dipinto quadri, insomma un artista con la A maiuscola ma purtroppo poco fortunato.
      Grazie davvero per il suo commento.
      Alessandro Pinci

  • Romeo Castiglione 3:08 pm il 22 March 2015 Permalink | Rispondi
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    Voci di Vallea 

    E attendo la fine di un carnevale improvviso. Scruto i volti dei ragazzi mascherati; osservo i carri allegorici colmi di elefanti, pagliacci, gatti, topi. Piovono dal cielo i coriandoli e accarezzano l’asfalto di Prata. Spengo l’autoradio e scompare il riverbero delle partite di calcio. Mi piacerebbe tornare nel passato mai vissuto. Ma non è possibile. Scompare il desidero tra i viottoli di campagna.

    È il quindici febbraio del 2015. Potrebbe tranquillamente essere un giorno del 1975; in fin dei conti è facile immaginare un sogno. Ebbene ammiro la natura irpina e conto le pagine del libro Voci di Vallea di Dante Troisi. Leggo e scopro un’altra storia minore. Queste gemelle mi piacciono: disegno nella mente il loro profilo celestiale. Avverto l’odore inebriante dei nerissimi capelli; avverto la fragranza di un profumo orientale. Nell’emporio del paese dimorano due donne ancestrali. Oltre il velo c’è ancora un letto disfatto. Artemisia e Amelia sono le meretrici della tetra patria nostra. Il ritmo della provincia è lentissimo. Emma ha una chioma «biondo cenere». Conta le delusioni: cerca un marito nonostante la gravidanza impertinente; Osserva la strada attraverso i vetri e scosta il lembo della tenda.

    Frattanto Letizia palpa con trepidazione i grani di un rosario paesano: prega e osserva dal balcone il fragore della festa di maggio. Il vento solleva il fumo del boato eclissato. Dove si è nascosta l’irruenta Rosaria? Dov’è sua figlia? Le domande si smorzano nel sonno. E torna a casa Rosaria soltanto nel cuore della notte. Ha perduto il pettine: è stanca, focosa. Ha consumato il suo olocausto.

    Poi spunta la sagoma di Anna. Affiora tra le righe la sua vicenda. Ella indossa un pantalone scuro e una giacca celeste. Ha legato i capelli e le orecchie brillano sotto la luce fioca. È la moglie ribelle di un venditore di mele; Anna ha un «colorito di mele maturate al buio». Il suo erotismo emerge in modo esasperato: sfiora le labbra con la lingua. E ride come una pazza, come una creatura maligna.

    Posso tornare indietro? Posso riavvolgere il nastro del tempo? Forse sì. Allora mi siedo sopra una vecchia sedia e fantastico. Calpesto la terra e accarezzo con la vista i fili del vigneto eterno. Il sole è fiacco, flebile, fasullo. I timidi di raggi sfiorano le mie mani. Si eclissa il riflesso dell’illusione. Respiro, chiudo la cerniera del cappotto. La primavera è ancora un abbaglio.

     
  • Romeo Castiglione 12:10 pm il 10 March 2015 Permalink | Rispondi
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    Svolta sull’Altipiano Laceno 

    Svolta sull'altipiano lacenoSembra un romanzo di Liala. Appunto sembra. Eppure l’autore di Svolta sull’Altipiano Laceno e l’irpino Ercole Buono. Il libro è stato stampato a Lioni nel 1978; ho recuperato una copia all’interno della Biblioteca Comunale di Manocalzati. Sono stato affascinato dalla fotografia presente in copertina. Ho dato un’occhiata alla prefazione ed ho portato a casa il volume. L’ho letto praticamente in due giorni. In rete ci sono pochissime notizie in riguardo dell’autore; addirittura non c’è nessuna recensione dedicata al libro.

    Mi è piaciuto molto questo lavoro di Ercole Buono: ho apprezzato lo stile e il modo di raccontare leggero. La protagonista è una donna borghese di nome Susa. Ella è la figlia di un famoso notaio ed è orfana di madre fin dalla nascita; vive in una città del nord Italia. Susa è sospesa a metà strada tra la Tradizione ei progresso. Vorrebbe scardinare i sacri tabù; allo stesso tempo tutela la sua posizione sociale e il suo prestigio familiare. Ha avuto un’educazione cattolica ed ha frequentato la scuola materna Figli di Gesù. Si è successivamente iscritta al liceo privato; il liceo è retto dalla suore. Insomma, pare Federica Moro nel film College; somiglia anche all’eroina del racconto Progetti di allegria di Carlo Castellaneta. Per di più ha un’amica femminista: parla con lei ma non condivide le sue idee. L’amica cerca di persuaderla vanamente. «Scusami se sono esplicita con te. Tu sei moderna e poi dal modo come agisci non sei moderna».

    E l’Altipiano Laceno? Compare all’improvviso. Susa si rifugia sull’Altipiano Laceno per ritrovare sé stessa: ella ha una sorta di crisi mistica. Mette, così, in discussione i suoi valori. Allora raggiunge un cantuccio del Sud e fugge dalla routine cittadina. «Mi piace tanto il Mezzogiorno col suo cielo azzurro – dice – col suo sole colle sue tradizioni, connaturate a quella gente semplice, ma dignitosa, fiera e capace di affrontare in silenzio grandi sacrifici». Sorge dunque la classica dicotomia Nord – Sud; di conseguenza appare la contrapposizione città – campagna. Il Laceno è una cartolina oleografica; è un luogo addirittura ieratico. «Le cento e cento villette aggrappate qua e là – scrive Buono – ai piedi del montagne colla loro policromia di tinture e di fiori offrivano alla sguardo tanta gaiezza».

    I progressisti, sicuramente, avrebbero definito “borghese” questo libro. Certo, è un libro borghese: per tale motivo è intrigante. La protagonista è una donna intelligente, pragmatica, libera, indipendente. Non si lascia influenzare degli altri e difende le sue idee. Il romanzo è stato pubblicato alla fine degli anni ’70 eppure è ancora interessante, fresco. È un lavoro garbato ed elegante. Ercole Buone ha raccontato le gesta di una donna non di sinistra, sicuramente moderata e conservatrice. Attualmente Susa potrebbe essere rivalutata? Penso di sì.

     
  • Romeo Castiglione 12:56 pm il 11 May 2014 Permalink | Rispondi
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    La sopravvivenza 

    La-sopravvivenza

    La sedia vuota trasmette una dolce sensazione d’inquietudine. Lo spettro aleggia nell’acqua impura. Permane soltanto la mestizia torbida colma di richiami enfatici. Sbuca da una porta secondaria il ricordo corporeo della mascolina Italia, l’eroina scialba del libro Non ti muovere di Margaret Mazzantini. Una seggiola scomoda è cristallizzata nel riflesso oscillante del medico Timoteo. E la sua amante è un’ombra immaginaria: appare e scompare. L’escavatore della vita è già entrato in azione. Il ricordo è spazzato via; s’inabissa nella terra argillosa e piena di melma. Ferocemente l’esistenza calpesta i giorni vissuti.

    Daniele è offuscato dai suoi dubbi esistenziali. Egli è un protagonista del romanzo La Sopravvivenza di Dante Troisi. È un uomo debole, incapace di lottare, di resistere alle intemperie. Non accetta la Morte inaspettata eppure attesa della moglie malata di cancro. E vive e non combatte. Assiste impassibile al lento declino della sua dolce metà, della sua Annaagonizzante”. La sedia vuota campeggia sull’austera e fredda copertina del volume pubblicato da Rusconi. Ebbene questa sedia di legnò è tetra: s’intona con il colore arido della terra morta. In mezzo a queste terribili pagine è celata una profonda e viscerale storia d’amore ambientata ad Avellino. La narrazione corre lungo le linee del dramma e tocca le corde dell’anima vibrante.

    Non è facile sopravvivere dopo un uragano, dopo la fine di un amore sentito e solenne. Il rapporto tra i due è fugace, caduco. Il sonno eterno veglia sulla donna nell’ultimo atto della vita: è pronto a portarla nell’aldilà e concede a lei le ultime gioie dell’esistenza. Appare la rifrazione d’importanti film. Autumn in New York, Voglia di tenerezza e Scelta d’amore sono titoli evocativi. Anche nell’Avellino di Troisi imperversa l’autunno silente e melanconico. A terra cadono foglie fiacche e dilatate. Così Daniele conta gli ultimi passi. L’autore lascia parlare i personaggi principali: il lettore conosce i meccanismi tramite i sentimenti dei protagonisti. Anna annota sopra un diario immaginario il suo sconforto. «Devo proprio essere in agonia, o assai vicina, se Daniele rimuove quarant’anni di disordinata indifferenza religiosa pur di guadagnarmi anche domani il miracolo di chiamarlo o rispondergli. Il chiarore che filtra dalle persiane appena accostate mi basta per scegliere sul comodino le compresse che mi spettano a quest’ora della notte». Trabocca dai pensieri una passione focosa e scomoda. L’oscura nottata è un mostro senza testa. Riesce a incutere timore: il buio è un assaggio, un’anticamera triste della morte. La luce fioca è l’ultimo appiglio severo, l’effimera speranza di risalita. Daniele conosce questo spasimo e pertanto rammenta al vento sconquassato dal rumore dei motorini il suo patimento. «Sono un credente che, rimasto a lungo fuori servizio, pratica con fervore, sino a indolenzire le braccia, il primo gesto di devozione. Forse così mi sarà dato anche il tempo di una fede operosa».

    Scorre nelle vene l’emozione. La forza emotiva è prorompente. Il contorno è pudico. La vita vera è sospesa, sembra distante. Erompe soltanto la sofferenza contrassegnata dalle corse in ospedale, dalle attese, dalle carezze nascoste. La donna è conscia di tutto ciò. «Daniele ama la mia malattia al punto che forse prende di nascosto le mie stesse medicine… Senza Daniele la mia agonia sarebbe più breve o meno affannata?». Le domande non trovano nessuna risposta. Putroppo la rosa senza colore accantonata sopra il letto simboleggia una speranza rattrappita.

    Daniele resta tra i vivi ma è morto dentro. «Avellino è carica di sole, ma non ho tempo per imparare le stagioni. Mi porto via la natura come il caldo e il freddo, buio e luce». La voglia di annullare lo spirito è enorme. Sulle panchine della città si siedono altre coppie. E l’automobile vaga senza una meta; il tergicristallo emette meccanicamente un suono cupo. «Avellino si spegne nella pioggia». L’uomo osserva il grigio ottobre in mezzo a un traffico asfissiante. Il temporale irrompe: Avellino sembra Berlino o una qualsiasi città dell’Europa settentrionale. E il freddo indifferente pervade le speranze di Daniele in codesto romanzo esistenzialista dal sapore feroce.

     
  • Romeo Castiglione 5:19 pm il 25 April 2014 Permalink | Rispondi
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    Diario di un giudice 

    copertinaTroisi

    L’Italia è sempre la stessa: forse non cambierà mai. Scorre come un placido fiume pigro la mia atroce riflessione. Attentamente rileggo le ultime pagine del Diario di un giudice di Dante Troisi e ipotizzo sulle effimere conclusioni. La giustizia non esiste. E questo libro contiene all’interno un piccolo sfogo, una ribellione tranquilla. L’autore conta le proprie considerazioni personali e le mette in processione: si affastella un corteo immaginario di errori, rimpianti, ricordi sbiaditi. Capita a tutti di perdere le certezze.

    Pensieri scialbi di un grigio sabato pomeriggio a Tufo. Nel salone di mio zio Goffredo Perone non c’è la traccia del tempo: le storie dell’Irpinia sono attaccate ai mobili, ai divani, alle mensole. Il ricordo di Dante Troisi aleggia nell’atmosfera austera; lo scintillio del camino accesso illumina le zone buie in modo irreale. S’innalza un miraggio, un chiaro spiraglio. Piovono i commenti, le valutazioni sui libri: è una sfilza di nomi, titoli. Ma quel Diario del giudice di Tufo è un capolavoro. Uscì nel 1955 e apparve all’interno dei “Gettonivittoriniani. Ho in possesso una vecchia copia malandata pubblicata da Einaudi: la copertina è severa nonché semplice. Una cornice viola e gialla protegge una caricatura di Daumier che sintetizza, meglio di altro, il pensiero dell’uomo Troisi in riguardo della giustizia italiana. Ed è un lavoro appassionante, coinvolgente. È reale: pertanto è stato oggetto di censura. Nel 1978  andò in onda su rai uno lo sceneggiato tratto dal libro incriminato.

    Dante Troisi ha demolito l’immobile castello dell’inibizione. Ha scardinato edifici “sacri” per tutta la sua vita. Da Tufo si trasferì a Parma per studiare; in quei giorni si rese conto delle differenze di trattamento tra i meridionali e i settentrionali. L’insigne irpino lavorò a Cassino con l’incarico di magistrato. La città laziale è lo sfondo degli avvenimenti narrati nel libro; ad ogni modo l’autore ha preferito non nominare i luoghi ed ha soltanto inserito le prime lettere. Cassino è soltanto C, Montevergine è soltanto M. Balza agli occhi una particolare indifferenza dei giudici nei confronti delle persone: emerge una magistratura non neutrale, conscia dei propri errori. Poco importa delle condanne ingiuste; importa ancora meno dei poveri cristi che rubano la legna per necessità. Gli avvocati vincono le cause grazie agli amici magistrati e la monotonia scialba è cancellata da un guizzo. I colleghi ottengono il trasferimento in posti migliori grazie all’intercessione dei politici e il resto conta davvero poco; d’altro canto la molla che muove il mondo è soltanto l’invidia. «Domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Oggi dalla parte di un sistema, non certo il migliore». L’autore demolisce i luoghi comuni e si lancia nella contestazione globale con le armi dell’indignazione. I giorni si affastellano e le piccole storie di provincia sono degne di un romanzo. Un proprietario di un fondo desidera mandar via un colono: quindi vuole “comprare” il giudice Troisi e offre le prestazioni sessuali di una ragazza. Anche questa è la provincia…

    Si condensano tra le pagine del diario i ricordi atroci del passato. Non scompare il riverbero della guerra d’Etiopia, nemmeno la Tunisia va via dalla lavagna della memoria. Compare il brutto trascorso contrassegnato dalla dura prigionia in Texas, nello stesso campo di concentramento dello scrittore Giuseppe Berto. E Troisi desiderò la libertà sempre; a tal punto la dimensione onirica si confonde con il terrore. I sogni sono strani: c’è sempre un treno fermo in campagna.  Spuntano i gendarmi immaginari con la divisa delle SS; sorgono i riflessi del vento americano che sbatte sui fili spinati. La locomotiva è un mezzo fantastico di evasione; è un lungo trip estatico dal sapore amaro. «L’ululo dei treni – scrive Troisi – apre varchi di sereno nella cortina di pioggia fin dove l’eco si spegne in altre piogge di là dal Texas che passavano al limite della pianura e non badavano al reticolato che ci chiudeva». È poesia autentica e pura.

    A margine è partecipe la comunità con i suoi vizi perenni. Il dottor Troisi è stanco, non ha più slancio. È obbligato a essere integerrimo in un ambiente per nulla incorruttibile. Si addentra nelle misere case dei contadini e scorge le foto di Sant’Antonio e il putrido mobilio. Di striscio passa la vita quotidiana: il protagonista assiste agli eventi, annota sul suo diario le emozioni. È impassibile, ha perso la passione. Perciò non muove un dito; da lontano guarda i fatterelli. Così scopriamo le storie più disparate. Appare un coloured brizzolato intento a portar via la figlia dal convento; la Madre Superiora chiude il portone e l’uomo si siede disperato sul marciapiede. Intorno a lui addensa la calca: egli rammenta i suoi momenti di prigionia in Abruzzo e saluta romanamente un Carabiniere. Il popolo d’istinto si schiera dalla sua parte, nello stesso tempo sbraita contro la legge ingiusta. Dante Troisi non interviene, resta in disparte. Forse è in bilico. Ebbene la Madre Superiora pare un personaggio interpretato da Virna Lisi; l’irruenta e bella fermezza butta l’immaginazione nei cunicoli cinematografici. E i sogni notturni dei colleghi sono colmi di suore.

    Si presenta finanche un piccolo cantuccio tra i turbinosi appunti di lavoro. L’autore descrive il suo ritorno in Irpinia. Raggiunge Tufo e descrive le gioie e le emozioni rattrappite. Intravede le mura bianche del cimitero; si siede sul marciapiede, guarda le galline. Entra in un bar solitario, chiede vanamente un caffè. Sembra la scena di un film. Pare il paese della giovane Carolina del lungometraggio ultra censurato di Monicelli: Totò è un brigadiere qualsiasi, uno di quelli con i baffi da meridionale. Non si ode la musica in sottofondo; il Nord è lontano, le mode ancora devono arrivare nel profondo sud. Sulle cantonate ci sono i manifesti di arruolamento e le pubblicità delle compagnie navali pronte a trasportare i cafoni nel Nuovo Mondo. Poi è presente un’escursione a Montevergine.  Troisi eguaglia Giuseppe Marotta. È una descrizione immensa ed evocativa. «Ogni curva – narra l’autore – è un’aerea terrazza sospesa man mano più in alto sulla vallata che sprofonda e si distende appiattendo le colline per slargare l’orizzonte, con le case e i paesi lentamente alla deriva sui boschi di castagni, pioppi, olivi. Pareti d’alberi s’alzano improvvisamente dai bordi creando un tono d’acquario, tronconi di roccia sporgono da entrambi i lati come bracci di una morsa in cui l’automobile sfila a stento». Non poteva utilizzare parole migliori.

    La bravura dello scrittore irpino è evidente. Non bada al sottile e non ha paura di pitturare malissimo i suoi pessimi colleghi pronti a cambiar casacca in base agli avvenimenti, pronti a cantar Bandiera Rossa e subito dopo Faccetta Nera. L’essere umano si adatta, cerca il compromesso. «Forse siamo tutti favorevoli a un regime di dittatura – dice sconsolato Troisi – perché proibisce le critiche contro di noi». Sarà sempre ricordato per il suo immenso coraggio. Quest’irpino narrò impetuosamente l’italico decadimento della giustizia. Anticipò i tempi, fu un pioniere indiscusso. Tuttavia i giudici sono uomini…

     
  • Romeo Castiglione 4:15 pm il 16 March 2014 Permalink | Rispondi
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    Frammenti di uno storico pomeriggio 

    20140315_182541È stato presentato sabato 15 marzo il mio libro dedicato ad Arturo De Masi. Hanno partecipato all’iniziativa la relatrice Melissa Fiorino, il giornalista Pellegrino La Bruna, il professor Antonio Polidoro, l’ingegner Emanuele Del Mauro e il dottor Vittorio Ciampi. La cornice di pubblico ha donato all’evento un’atmosfera anni ’60. Ringrazio Polidoro per la splendida recensione del mio libro pubblicata sul “Corriere dell’Irpinia”.

     

    Le mie considerazioni

    Oggi s’è avverato un sogno. Arturo De Masi ha sempre affascinato il mio immaginario: nel corso del tempo ho approfondito tramite i documenti, le fotografie e gli articoli di giornale la storia politica dell’ex sindaco di Manocalzati; in concreto sono stato attratto dal suo stile severo e dal suo modo di approcciarsi alla vita. Di conseguenza ho raccolto informazioni dettagliate e con grande passione ho ricostruito la sua grande epopea. Il libro esalta le vicende di De Masi alla stregua di un piccolo romanzo di provincia. Proprio così. Tra le pagine è possibile scorgere la realtà del nostro comune e tramite questo racconto viene a galla la malinconia per i tempi andati.

    Arturo è un esempio da seguire. Purtroppo è morto troppo presto ed ha lasciato un grande vuoto. Sono nato nel 1985, nell’anno della sua sconfitta politica. Avrei voluto vivere ogni singola pagina di codesta avvincente narrazione romantica. Forse il fremito di quei giorni l’ho afferrato con la fantasia; in concreto ho toccato con le mani il calore, la passione degli anni trascorsi. Il tempo è come un lenzuolo: il passato e il futuro sono collocati ai lati estremi. Possiamo avvolgerlo, però, il lenzuolo, e abbiamo la capacità di riempirlo con le cose più belle. Questa frase è possibile trovarla all’intero del film “Peggie Sue si è sposata”.

    La memoria è ancora viva. Il ricordo veglierà imperterrito e guiderà le nuove generazioni. Il passato indicherà ancora una volta la rotta verso l’avvenire; andremo avanti soltanto guardando indietro. Certo, il singolo ha un compito arduo: deve riconoscere nel mare infinito dell’indifferenza e dell’omologazione i modelli da seguire. Siamo continuamente turbati dai falsi miti e sovente adoriamo icone legate ad altre culture. Dobbiamo cercare senza arrenderci mai: occorre esaltare i nostri antenati, i nostri personaggi di valore, i nostri uomini di talento. Soltanto noi possiamo farlo. Ed è meglio differenziarsi dalla massa ricercando nel nostro vissuto le stelle da rincorrere.

    Il sindaco De Masi mi ha ammaliato per il suo stile: ha rappresentato l’eccezione nell’Irpinia democristiana per la sua appartenenza politica al mondo della destra. I politici campani lo chiamavano “Il sindaco missino” e lo salutavano romanamente. Egli non si vergognò mai di tale appellativo, al contrario mostrò a tutti la fierezza delle idee. Credo che sia stato il sindaco più carismatico che abbia avuto Manocalzati. Ancora adesso il suo alone attrae i giovani. Sono cresciuto coltivando il suo mito. Arturo è un personaggio epico, un alfiere languido del tempo smarrito.

    In questi giorni ho notato un particolare interessante. I miei amici mi hanno telefonato per conoscere in anteprima i retroscena del libro. Questo piccolo tomo ha risvegliato una passione sopita e mai rinnegata verso un uomo importante. Il mio racconto è leggermente romanzato. Ho inserito Arturo all’interno di una cornice più ampia e diversa da quella locale. Il peso importante degli avvenimenti è celato dentro le piccolissime vicende paesane.

    Purtroppo per motivi economici ho fatto stampare soltanto cento copie. Esprimo gratitudine nei riguardi della tipografia Iannone di Avellino per la realizzazione del libro. Sono riuscito a recuperare le esigue spese grazie agli sponsor. Colgo l’occasione per ringraziare l’Hotel Belsito, l’Isotecnica, l’Europlastik, il panificio Santoro, la taverna l’Orcagna, l’ingegner Aniello Aquino, il geometra Carlo Castiglione e la famiglia De Masi. Ogni copia è costata 8 euro e sarà data gratis. Tuttavia nei prossimi giorni inserirò sul mio blog il file pdf con il libro. Grazie a ciò sarà possibile stamparlo da casa. Ho dato il file anche all’edicola di Sabino Nigro.

    Il mio stile narrativo è un ibrido. In effetti, adoro enfatizzare e confondere le carte. Questo libro è sospeso tra il romanzo picaresco e l’avventura western. C’è Guareschi, c’è Don Camillo, c’è l’atmosfera paesana della pianura padana. I riferimenti cinematografici, musicali e nazionalpopolari contornano gli avvenimenti e impreziosiscono le pagine. Arturo è raffigurato come un paladino degli oppressi, alla stessa maniera di un protagonista di un lungometraggio italiano degli anni ’50. In questi mesi ho colto alcuni collegamenti intriganti tra il sindaco e Achille Lauro. Credo che il comandante sia stato un grande stratega politico. Amò sempre la libertà d’azione, nello stesso tempo cercò un contatto con la Democrazia Cristiana. Fu pragmatico come Arturo De Masi. Per di più l’americanismo accomuna Lauro e Arturo. Il fondatore del Partito Monarchico Popolare scrisse un telegramma a Truman al fine di rimarcare la stima dei monarchici verso gli USA. Il sindaco cercò un contatto con i fratelli d’oltre oceano e forgiò la sua colomba sull’atlantismo e sull’anticomunismo. In pratica il Nostro primo cittadino riuscì a barcamenarsi grazie al suo intuito politico. Paradossalmente i due sostennero anche i candidati del Partito Socialdemocratico. Lauro aiutò Nicola Salerno nella penisola sorrentina e si prodigò per la sua elezione; Arturo sostenne il suo amico Silvestro Petrillo alle elezioni provinciali del 1974 e supportò nel 1983 l’onorevole cilentano Paolo Correale. La destra di De Masi è popolare, schietta, pragmatica, paesana, simpatica. È la destra di Gianfranco D’Angelo di Maurizio Merli e del b movie italiano anni ’70.

    Ho tentato tramite codesto lavoro di mettere in risalto anche le figure secondarie della colomba. In altre parole ho evidenziato i protagonisti delle campagne elettorali, i candidati, i sostenitori fedeli e i simpatizzanti. Certo, è difficile elencarli tutti e qualcuno mi è sfuggito. Per motivi di spazio non ho inserito alcuni aneddoti simpatici legati ai seguaci di Arturo. Nondimeno sono stati rimembrati molti protagonisti delle aspre contese. Ad esempio si rincorrono nelle pagine i nomi di Luigi Melchionne, Giovanni Pagliuca, Gaetano Cerullo, Sabatino Bilotto, Raffaele De Benedictis, Francesco Zara, Giuseppe Brogna, Errico Accomando, Giovanni Maglio.  Nel capitolo dedicato ai fedelissimi c’è una bella dichiarazione di Antonio Iandiorio. Grazie alle sue parole ho colto il suo attaccamento nei confronti del sindaco.

    Inoltre ho ricordato le personalità di rilevo legate alla minoranza. È sorto un canovaccio intrigante. A tal punto ho messo in rilevanza la battagliera opposizione contrassegnata dal logo della Democrazia Cristiana. Il compianto ingegner Guerico Russo fu il primo reggente dello scudo crociato in paese, nonché il primo basista. Con lui compaiono l’ex sindaco Benedetto Tirone, l’avvocato Adolfo De Benedetto, il consigliere comunale Felice De Benedictis e il dottor Vittorio Ciampi. Il gruppo avverso al sindaco tentò in tutti i modi di ottenere visibilità e battagliò senza sosta. Credo che sia stata un’opposizione intelligente.

    Le sfumature della vita inducono il pensiero lungo sentieri alternativi. Di conseguenza è facile trovare stimoli diversi. Occorre mostrare gli aspetti più intriganti dell’esperienza politica di Arturo. L’amministratore fu sempre svincolato dalle logiche aberranti dei partiti. Fondò una piccola ideologia fondata sul culto tenero del capo e sul rispetto delle classi meno abbienti. La Colomba rappresentò una proposta alternativa e laica. Per vent’anni fu il vero perno della vita politica di Manocalzati.

    Il bianco pennuto rappresentò il rinnovamento. Nacque dall’intuito del monarchico Giuseppe Del Mauro. Il politico di San Barbato espose ad Arturo l’idea di un raggruppamento civico e suggerì come simbolo l’innocuo volatile.  La Colomba prese spunto da un manifesto della Democrazia Cristiana apparso nel 1956 con l’intento di sostenere la rivolta ungherese. Quel volatile stritolato dal pugno chiuso ha una dimensione chiaramente anticomunista. Il civismo degli anni ’50 e ’60 fu contraddistinto dal qualunquismo e dalla spiccata fede verso la destra.

    Certo, ci vuole coraggio. Sono stanco del cosiddetto politically correct che contraddistingue tristemente il nostro territorio. Nell’aria è presente un’esigenza diversa: bisogna recuperare il pioneristico spirito del punk per proiettarlo nel presente. Mi definisco uno spirito libero per siffatto motivo. L’immobilismo statico è il nemico della creatività. In paese è presente un’aria strana. L’appiattimento culturale ha orami demolito lo spirito di buona volontà. Il clima sovietico ha eliminato il dibattito; inoltre ha imbalsamato la politica. A me non piace la censura. È così. Voglio dire una cosa: la politica è parte integrante della vita. Tutto riconduce alla politica. È impossibile non parlare di ciò. Per farlo devi spegnere il cervello e devi diventare come un automa. Io non ci riesco.

    In conclusione ringrazio tanto Pellegrino La Bruna. In questi mesi soltanto lui è stato vicino a me. Mi ha spronato. Ho trovato la forza per andare avanti tramite i suoi consigli. Non dimenticherò mai la sua bontà. Ringrazio inoltre mio zio Goffredo Perone. Il libro l’ho dedicato a lui perché ha sempre sostenuto questa mia avventura. Zio Goffredo conserva una stima notevole verso Arturo De Masi e lo considera un grande uomo. Saluto tutti voi e quelli che non sono venuti apposta.

    13 maggio 1985

    Muore l’immacolata colomba. Le atroci mani irrompono nel petto e il sangue tinge di rosso il beato manto.

    Stramazzata a terra contempla il passato.

    I piccoli occhi stanno salutando il mondo: come un lampo la nube della storia sciorina gli antichi splendori.

    Di ieri è rimasto ben poco.

    13 maggio 1985. Il sole illumina un nuovo giorno. Per il volatile la luce è più nera del buio terribile.

    Le urla si sentono un po’ meno; il fracasso si dilegua. In cielo non si avverte la cattiveria.

     20140315_18231820140315_182334

     

     
    • gino 6:23 PM il 16 marzo 2014 Permalink | Rispondi

      felice per questa tua avventura letteraria,da te molto sentita,in quanto figlio di un suolo che ha visto come condottiero, per un periodo longevo,una persona ancor oggi compianta ed avvolta da tanta stima,ti auguro,ne sono certo che è solo l’inizio di un fiorente periodo di pubblicazioni e di vita giornalistica.

  • Romeo Castiglione 9:06 am il 2 March 2014 Permalink | Rispondi
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    Arturo De Masi, per amore di Manocalzati 

    Per amore di ManocalzatiSarà presentato sabato 15 marzo alle ore 18:00 nella casa della cultura di Manocalzati il mio libro dedicato ad Arturo De Masi. Interverrà il giornalista Pellegrino La Bruna e nel corso dell’appuntamento si esibirà il cantautore Sabino Pece. L’opera esalta la storia politica dell’ex sindaco del paese alla stregua di un piccolo romanzo di provincia; tra le pagine è possibile scorgere la singolarità del mitico fondatore della lista civica Colomba. De Masi amministrò il comune dal 1964 al 1985 e raffigurò un’alternativa credibile. Rappresentò l’eccezione nell’Irpinia democristiana per la sua appartenenza politica al mondo della destra: in pratica fu una voce fuori dal coro e indipendente.

    Nacque l’11 febbraio del 1922: venne al mondo nello stesso anno della Marcia su Roma. Visse la sua gioventù durante il Fascismo e tale peculiarità aiutò il nostro ad affrontare tutte le difficoltà della realtà. Nel 1948 si candidò alla Camera nelle fila del Partito Nazionale Monarchico. Malauguratamente non fu eletto. Iniziò a lavorare nel settore tecnico della forestale a Benevento con l’incarico di geometra.

    Si sposò il 5 maggio del 1957 con Rosetta Montano; offrì ai figli un’educazione rigida e rigorosa. Fu un vero borghese, nel senso più bello del termine. Condusse sempre una vita lussuosa ma non si arricchì mai con la politica. Fu sempre affascinato dal mito dell’America e cercò di allacciare i contatti con i manocalzatesi d’oltre oceano. Questa tipicità caratterizzò le sue idee e le proposte in un periodo spensierato. Egli trasmetteva sentimenti contrastanti: era un leader egocentrico, per tanto lo hanno amato i sostenitori e lo hanno odiato gli avversari. Fu realmente grandioso poiché mantenne unito il paese grazie alle sue iniziative volte al dialogo.

    Sul piano politico non nascose le sue simpatie per la destra. Tuttavia cercò sempre di allargare i suoi orizzonti. In pratica capì l’importanza della persona. Affascina la sua figura proprio per questo motivo: senza dubbio il suo decisionismo merita un’ammirazione particolare. Manca oggi in provincia un amministratore con il suo stile. Con orgoglio, però, non rinnegò mai la sua adesione ideale al Movimento Sociale Italiano. I politici campani lo chiamavano “il sindaco missino”, addirittura lo salutavano romanamente.

    Il 22 novembre del 1964 la sua lista riuscì a vincere le elezioni amministrative. Arturo divenne il sindaco e guidò il comune per ventuno anni consecutivi. Affrontò da protagonista tanta campagne elettorale e ottenne sempre un consenso ampio. Diede alla popolazione una speranza nuova e fondò il suo programma su un ingenuo campanilismo d’altri tempi. Gestì la cosa pubblica in modo deciso e aiutò le classi meno abbienti. Nel suo “ventennio” dorato gettò le basi per il progresso civile e materiale di Manocalzati. Fu ammirato dal resto dell’Irpinia per la severità e per l’acume politico.

    È vera una cosa: il sindaco fu un perseguitato politico. Le opposizioni cercarono di demolire la sua forza. Andò in scena una lunga ed estenuante battaglia contrassegnata dalle denunce, dalle calunnie e dalle carte bollate. Siffatto conflitto iniziò addirittura nel periodo antecedente la vittoria. Infatti, le prime querele ai danni del politico arrivarono intorno al 1962. Non possiamo sapere con certezza quali furono i motivi che spinsero gli anonimi diffamatori a procedere lungo questa atroce e cattiva direttiva. Non fu il sindaco più denunciato d’Italia. Tuttavia sicuramente fu tra i più tartassati.

    In tutti i modi possibili e immaginabili arrivarono tantissime incriminazioni; nonostante sia sempre stato assolto ha calamitato l’attenzione di quotidiani locali e nazionali. Non trovò mai pace. Dovette scontrarsi contro gli avversari duri e convinti.

    De Masi emulò sommessamente Achille Lauro. Anch’egli come il fondatore del Partito Monarchico Popolare desiderò la libertà di azione; nello stesso tempo avvertì l’esigenza di tendere una mano alla Democrazia Cristiana. A tal punto dal suo eremo dorato riuscì a tenere in piedi un patto di non belligeranza con il partito di centro.

    Per di più ricalcò il modello di Juan Domingo Peròn: è un’impressione leggera. Dal peronismo colse lo sciovinismo, il socialismo, il comunitarismo. Apprezzò la mancanza di riferimenti politici ben precisi. Arturo modellò la sua Colomba al di là della destra e della sinistra.

    Il 6 marzo del 1988 Arturo De Masi andò in cielo. Lasciò le beghe di un piccolo paese in una tetra e piovosa domenica mattina e volò nell’infinito degli eroi. Fu stroncato da un terribile infarto ad Avellino e le tenebre si dipanarono con tutti i loro spettri. Una marea umana si addensò nella sua casa e rese omaggio per l’ultima volta al fondatore della colomba. La bara fu avvolta da un tricolore e gli applausi scrosciarono come il diluvio; istintivamente si levò il grido “Arturo, Arturo!” e negli occhi della gente comparvero le lacrime. Finì così la storia di un grande personaggio della politica locale. Si commosse finanche il cielo. Gli avversari onorarono l’ex sindaco e seguirono il feretro fino al cimitero. L’intera comunità partecipò coinvolta al corteo funebre. Ventuno anni di amministrazione non sono pochi.

    De Masi fu un uomo libero. Si dedicò soltanto a Manocalzati per amore; con la sua lista indipendente e poco incline al compromesso non tradì mai il patto con gli elettori. Rimase nel suo “orticello” e lasciò agli altri i voli pindarici. Lui si accontentò di amministrare il paese e lo servì in modo limpido e onesto. La sua rettitudine ancora oggi è un faro per i giovani.

     
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