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  • Romeo Castiglione 10:44 am il 12 April 2015 Permalink | Rispondi
    Etichette: al convento mimmo cavallo, , campo contrentramento texas, , damnatio memoriae, , , , , gettoni vittoriniani, giuseppe berto, i bianchi e i neri, , l'odore dei cattolici, la sopravvivenza, , , , parma, , , , viaggio scomodo, ,   

    Dante Troisi, una voce controcorrente 

    Dante TroisiAveva ragione Dante Troisi. La giustizia non esiste. Lo scrittore e magistrato irpino evidenziò le storture della giustizia italiana nel 1955. La mia riflessione scorre come un placido fiume; rileggo attentamente le ultime pagine del Diario di un giudice e medito. Questo libro raccoglie un piccolo sfogo, una ribellione tranquilla. L’autore mette in processione le considerazioni personali: si affastella, così, un corteo saturo di errori, rimpianti, ricordi sbiaditi. Rimugino pensieri in un sabato di aprile. In una villa di Tufo c’è la traccia del tempo perduto; le storie dell’Irpinia sono attaccate ai mobili, ai divani, alle mensole. Il ricordo di Dante Troisi aleggia nell’atmosfera austera; lo scintillio del camino illumina le zone buie in modo irreale; s’innalza un miraggio, un chiaro spiraglio. Piovono i commenti, le valutazioni sui libri: è una sfilza di nomi, titoli. Ma quel Diario del giudice di Tufo è un capolavoro. Apparve all’interno dei “Gettoni” vittoriniani. Ho in possesso una vecchia copia malandata pubblicata da Einaudi; la copertina è severa nonché semplice. Una cornice viola e gialla protegge una caricatura di Daumier. Ed è un libro avvincente, coinvolgente. Addirittura è stato censurato per offesa alla magistratura. Nel 1978 andò in onda su Rai Uno lo sceneggiato tratto dal libro incriminato.

    L’autore ha demolito l’immobile castello dell’inibizione. Sembra che sia calata sulla sua figura una sorta di damnatio memoriae. Egli è un intellettuale “scomodo”. Dante Troisi non è catalogabile; al contrario, è uno spirito libero. Nei suoi libri ha messo in evidenza alcune tematiche scandalose; ha infranto i tabù. Egli è il Mimmo Cavallo della letteratura; il cantautore Mimmo Cavallo si è contraddistinto per la ruvidezza linguistica; anche Troisi è stato molto ruvido e vero. Ha scardinato edifici “sacri” per tutta la sua vita. Da Tufo si trasferì a Parma per studiare; in quei giorni si rese conto delle differenze di trattamento tra i meridionali e i settentrionali. L’illustre irpino lavorò a Cassino con l’incarico di magistrato. Il libro è ambientato nella città laziale; ad ogni modo l’autore ha preferito non nominare i luoghi ed ha soltanto inserito le prime lettere delle città. Cassino è soltanto C, Montevergine è soltanto M. Balza agli occhi la particolare indifferenza dei giudici nei confronti delle persone: emerge una magistratura non neutrale, conscia dei propri errori. Poco importa delle condanne ingiuste; importa ancora meno dei poveri cristi che rubano la legna per necessità. «Sospetto di essere strumento di vendetta, – scrive Troisi – a volte della vendetta di un uomo contro un altro uomo, a volte del cosiddetto stato contro il resto degli uomini, inermi». Gli avvocati vincono le cause grazie agli amici magistrati e la monotonia scialba è cancellata da un guizzo. I colleghi ottengono il trasferimento in posti migliori grazie all’intercessione dei politici e il resto conta davvero poco; d’altro canto la molla che muove il mondo è soltanto l’invidia. «Domani, – dice – in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte. Oggi dalla parte di un sistema, non certo il migliore». L’autore demolisce i luoghi comuni e si lancia nella contestazione globale con le armi dell’indignazione. «In provincia – afferma – valgono i rapporti personali. Giudici e avvocati passeggiano per le stesse strade, frequentano i medesimi locali. Un avvocato non consente che il giudice paghi il caffè o l’aperitivo; strizza l’occhio al padrone e attende sorridendo che il magistrato si rassegni, più o meno in fretta, a riporre in tasca il danaro. Poi parlano, di un libro (ma rarissimamente), di un avvenimento di cronaca, di un processo celebrato altrove, infine pettegolano sui rispettivi colleghi: con l’ausilio della maldicenza nasce la reciproca stima. […] L’avvocato, in provincia, è un mestiere triste; vivendo a più stretto contatto con la giustizia, egli ne scopre le manchevolezze, le deviazioni, gli umori ed è indotto a correggerli: a proprio favore si capisce, ma nell’opinione che ciò coincida con l’interesse e il rispetto della legge».

    Il dottor Troisi non ha più voglia, ha perso lo slancio. Si addentra nelle misere case dei contadini e scorge le foto di Sant’Antonio e il putrido mobilio. Di striscio passa la vita quotidiana: il magistrato assiste agli eventi, annota sul suo diario le emozioni. È impassibile, ha smarrito la passione. Pare che sia ossessionato dalla morte. Egli vorrebbe uscire da scena, vorrebbe spezzare il martirio quotidiano; vorrebbe dissolversi nel vento. «Questo rumore di ogni mattino, – ricorda Troisi – avanti l’alba, inverno ed estate, del macellaio di fronte che batte con la coltella sui pezzi di bue che la moglie aiuta a mantenere, un rumore subito ripreso dagli altri macellai, i primi a sollevare le saracinesche mentre è ancora buio, vestiti dei camici bianchi su cui si allargano le macchie di sangue, pare arrestare il giorno che sta per spuntare e ti precipita come in un carnaio nell’attesa che arrivi il turno di reclinare il capo sul ceppo. […] (Morto due volte, stanotte in sogno: la prima sotto un treno, la seconda ruzzolando dalle scale del tribunale. Forse tutti non abbiamo più molta paura della morte e questo, in qualche modo, fa la vita più difficile)». I giorni si affastellano e le piccole storie di provincia sono degne di un romanzo. Un proprietario di un fondo vorrebbe mandare via un colono: quindi vorrebbe “comprare” il giudice Troisi. Pertanto offre le prestazioni sessuali di una ragazza. Anche questa è la provincia…

    Si condensano tra le pagine del diario i ricordi atroci del passato. Non scompare il riverbero della guerra d’Etiopia, nemmeno la Tunisia va via dalla lavagna della memoria. Compare il brutto trascorso contrassegnato dalla dura prigionia in Texas, nello stesso campo di concentramento dello scrittore Giuseppe Berto. E Troisi desiderò la libertà sempre; ebbene la dimensione onirica si confonde con il terrore. I sogni sono strani: c’è sempre un treno fermo in campagna. Spuntano i gendarmi immaginari con la divisa delle SS; sorgono i riflessi del vento americano che sbatte sui fili spinati. «Ma i carabinieri sono militi delle SS, un’enorme svastica scintilla sui berretti […]. E lo sgomento ha dovuto nel sogno vestirsi da SS per somigliare a quello del giorno». La locomotiva è un mezzo fantastico di evasione; è un lungo trip estatico dal sapore amaro. «L’ululo dei treni apre varchi di sereno nella cortina di pioggia fin dove l’eco si spegne in altre piogge di là dal Texas che passavano al limite della pianura e non badavano al reticolato che ci chiudeva». È poesia autentica e pura. E poi sbuca la sagoma lucente di un tale soldato Kurt; l’autore si sfoga con quest’amico dimenticato e scrive, scrive. «Mi sembrava, camerata austriaco, – dice l’irpino –  che la gente mi segnasse, non conoscevo nessuno di loro e tutti conoscevano me per chissà che distintivo […]. Se non è tardi, camerata, ti raccomando di mantenerti pulito: la guerra è finita da un pezzo ed è tempo di fare i borghesi senza rimpiangerla con Hitler e Mussolini».

    Ma il libro è colmo di piccole storie minori. Appare all’improvviso un coloured inglese brizzolato: l’uomo avrebbe voluto riportare a casa la figlia custodita in un convento. «Quando bussò al portone dell’istituto, – racconta l’autore –la gente gli andò dietro. Dopo molti colpi, il portone si socchiuse lasciando passare la madre superiora, una monaca dal viso grosso arrossato dall’orgasmo: si fermò sulla soglia stringendo tra le mani il crocefisso del rosario che le cingeva i fianchi». Non conosco il motivo eppure collego questa suora con il frate della canzone Al Convento di Mimmo Cavallo. La Madre Superiora chiude il portone e l’inglese si siede disperato sul marciapiede. Intorno a lui addensa la calca: egli rammenta i suoi momenti di prigionia in Abruzzo e saluta romanamente un carabiniere. Il popolo d’istinto si schiera dalla sua parte, nello stesso tempo sbraita contro la legge ingiusta. Dante Troisi non interviene, resta in disparte. Forse è in bilico. «Un vecchio, – racconta – il cappello in mano per rispetto, ma con accento brusco, riconosciutomi, mi chiese perché non intervenivo a favore del negro. Non seppi cosa rispondere: non ero in funzione. La mia funzione è controllare l’ago che indica il peso delle persone che cadono nella nostra bilancia e gridare i numeri». Ebbene la Madre Superiora pare un personaggio interpretato da Virna Lisi o da Alida Valli; l’irruenta e bella fermezza butta l’immaginazione nei cunicoli cinematografici. E i sogni notturni dei colleghi sono colmi di suore.

    L’autore descrive nel libro anche il suo ritorno in Irpinia. Raggiunge Tufo e racconta le gioie e le emozioni rattrappite. Intravede il cimitero; si siede sul marciapiede, guarda le galline. Entra in un bar solitario, chiede vanamente un caffè. Sembra la scena di un film. Pare il paese della giovane Carolina del lungometraggio ultra censurato di Monicelli: Totò è un brigadiere qualsiasi, uno di quelli con i baffi da meridionale. Non si ode la musica in sottofondo; il Nord è lontano, le mode ancora devono arrivare nel profondo Sud. Sui muri sono attaccati i manifesti di arruolamento e quelli delle compagnie navali pronte a trasportare i cafoni nel Nuovo Mondo. Poi è presente un’escursione a Montevergine. È una descrizione immensa ed evocativa. «Ogni curva – narra l’autore – è un’aerea terrazza sospesa man mano più in alto sulla vallata che sprofonda e si distende appiattendo le colline per slargare l’orizzonte, con le case e i paesi lentamente alla deriva sui boschi di castagni, pioppi, olivi. Pareti d’alberi si alzano improvvisamente dai bordi creando un tono d’acquario, tronconi di roccia sporgono da entrambi i lati come bracci di una morsa in cui l’automobile sfila a stento».

    Dante Troisi non bada al sottile e non ha paura di pitturare malissimo i suoi pessimi colleghi pronti a cambiar casacca in base agli avvenimenti, pronti a cantar Bandiera Rossa e subito dopo Faccetta Nera. L’essere umano si adatta, cerca il compromesso. «Forse siamo tutti favorevoli a un regime di dittatura – dice sconsolato – perché proibisce le critiche contro di noi». Sarà sempre ricordato per il suo immenso coraggio. Quest’irpino narrò impetuosamente l’italico decadimento della giustizia. Anticipò i tempi, fu un pioniere indiscusso.

    E un uomo continua a parlare di Troisi. Scopro così un aneddoto simpatico. Lo scrittore trascorse la sua gioventù a Tufo. Studiò all’interno della drogheria del paese. Studiò proprio lì. I suoi libri di diritto furono illuminati dalle lampade acetilene. Iniziò in quel momento la leggenda di un uomo scomodo, pungente e mai banale.

     

     
  • Romeo Castiglione 5:19 pm il 25 April 2014 Permalink | Rispondi
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    Diario di un giudice 

    copertinaTroisi

    L’Italia è sempre la stessa: forse non cambierà mai. Scorre come un placido fiume pigro la mia atroce riflessione. Attentamente rileggo le ultime pagine del Diario di un giudice di Dante Troisi e ipotizzo sulle effimere conclusioni. La giustizia non esiste. E questo libro contiene all’interno un piccolo sfogo, una ribellione tranquilla. L’autore conta le proprie considerazioni personali e le mette in processione: si affastella un corteo immaginario di errori, rimpianti, ricordi sbiaditi. Capita a tutti di perdere le certezze.

    Pensieri scialbi di un grigio sabato pomeriggio a Tufo. Nel salone di mio zio Goffredo Perone non c’è la traccia del tempo: le storie dell’Irpinia sono attaccate ai mobili, ai divani, alle mensole. Il ricordo di Dante Troisi aleggia nell’atmosfera austera; lo scintillio del camino accesso illumina le zone buie in modo irreale. S’innalza un miraggio, un chiaro spiraglio. Piovono i commenti, le valutazioni sui libri: è una sfilza di nomi, titoli. Ma quel Diario del giudice di Tufo è un capolavoro. Uscì nel 1955 e apparve all’interno dei “Gettonivittoriniani. Ho in possesso una vecchia copia malandata pubblicata da Einaudi: la copertina è severa nonché semplice. Una cornice viola e gialla protegge una caricatura di Daumier che sintetizza, meglio di altro, il pensiero dell’uomo Troisi in riguardo della giustizia italiana. Ed è un lavoro appassionante, coinvolgente. È reale: pertanto è stato oggetto di censura. Nel 1978  andò in onda su rai uno lo sceneggiato tratto dal libro incriminato.

    Dante Troisi ha demolito l’immobile castello dell’inibizione. Ha scardinato edifici “sacri” per tutta la sua vita. Da Tufo si trasferì a Parma per studiare; in quei giorni si rese conto delle differenze di trattamento tra i meridionali e i settentrionali. L’insigne irpino lavorò a Cassino con l’incarico di magistrato. La città laziale è lo sfondo degli avvenimenti narrati nel libro; ad ogni modo l’autore ha preferito non nominare i luoghi ed ha soltanto inserito le prime lettere. Cassino è soltanto C, Montevergine è soltanto M. Balza agli occhi una particolare indifferenza dei giudici nei confronti delle persone: emerge una magistratura non neutrale, conscia dei propri errori. Poco importa delle condanne ingiuste; importa ancora meno dei poveri cristi che rubano la legna per necessità. Gli avvocati vincono le cause grazie agli amici magistrati e la monotonia scialba è cancellata da un guizzo. I colleghi ottengono il trasferimento in posti migliori grazie all’intercessione dei politici e il resto conta davvero poco; d’altro canto la molla che muove il mondo è soltanto l’invidia. «Domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Oggi dalla parte di un sistema, non certo il migliore». L’autore demolisce i luoghi comuni e si lancia nella contestazione globale con le armi dell’indignazione. I giorni si affastellano e le piccole storie di provincia sono degne di un romanzo. Un proprietario di un fondo desidera mandar via un colono: quindi vuole “comprare” il giudice Troisi e offre le prestazioni sessuali di una ragazza. Anche questa è la provincia…

    Si condensano tra le pagine del diario i ricordi atroci del passato. Non scompare il riverbero della guerra d’Etiopia, nemmeno la Tunisia va via dalla lavagna della memoria. Compare il brutto trascorso contrassegnato dalla dura prigionia in Texas, nello stesso campo di concentramento dello scrittore Giuseppe Berto. E Troisi desiderò la libertà sempre; a tal punto la dimensione onirica si confonde con il terrore. I sogni sono strani: c’è sempre un treno fermo in campagna.  Spuntano i gendarmi immaginari con la divisa delle SS; sorgono i riflessi del vento americano che sbatte sui fili spinati. La locomotiva è un mezzo fantastico di evasione; è un lungo trip estatico dal sapore amaro. «L’ululo dei treni – scrive Troisi – apre varchi di sereno nella cortina di pioggia fin dove l’eco si spegne in altre piogge di là dal Texas che passavano al limite della pianura e non badavano al reticolato che ci chiudeva». È poesia autentica e pura.

    A margine è partecipe la comunità con i suoi vizi perenni. Il dottor Troisi è stanco, non ha più slancio. È obbligato a essere integerrimo in un ambiente per nulla incorruttibile. Si addentra nelle misere case dei contadini e scorge le foto di Sant’Antonio e il putrido mobilio. Di striscio passa la vita quotidiana: il protagonista assiste agli eventi, annota sul suo diario le emozioni. È impassibile, ha perso la passione. Perciò non muove un dito; da lontano guarda i fatterelli. Così scopriamo le storie più disparate. Appare un coloured brizzolato intento a portar via la figlia dal convento; la Madre Superiora chiude il portone e l’uomo si siede disperato sul marciapiede. Intorno a lui addensa la calca: egli rammenta i suoi momenti di prigionia in Abruzzo e saluta romanamente un Carabiniere. Il popolo d’istinto si schiera dalla sua parte, nello stesso tempo sbraita contro la legge ingiusta. Dante Troisi non interviene, resta in disparte. Forse è in bilico. Ebbene la Madre Superiora pare un personaggio interpretato da Virna Lisi; l’irruenta e bella fermezza butta l’immaginazione nei cunicoli cinematografici. E i sogni notturni dei colleghi sono colmi di suore.

    Si presenta finanche un piccolo cantuccio tra i turbinosi appunti di lavoro. L’autore descrive il suo ritorno in Irpinia. Raggiunge Tufo e descrive le gioie e le emozioni rattrappite. Intravede le mura bianche del cimitero; si siede sul marciapiede, guarda le galline. Entra in un bar solitario, chiede vanamente un caffè. Sembra la scena di un film. Pare il paese della giovane Carolina del lungometraggio ultra censurato di Monicelli: Totò è un brigadiere qualsiasi, uno di quelli con i baffi da meridionale. Non si ode la musica in sottofondo; il Nord è lontano, le mode ancora devono arrivare nel profondo sud. Sulle cantonate ci sono i manifesti di arruolamento e le pubblicità delle compagnie navali pronte a trasportare i cafoni nel Nuovo Mondo. Poi è presente un’escursione a Montevergine.  Troisi eguaglia Giuseppe Marotta. È una descrizione immensa ed evocativa. «Ogni curva – narra l’autore – è un’aerea terrazza sospesa man mano più in alto sulla vallata che sprofonda e si distende appiattendo le colline per slargare l’orizzonte, con le case e i paesi lentamente alla deriva sui boschi di castagni, pioppi, olivi. Pareti d’alberi s’alzano improvvisamente dai bordi creando un tono d’acquario, tronconi di roccia sporgono da entrambi i lati come bracci di una morsa in cui l’automobile sfila a stento». Non poteva utilizzare parole migliori.

    La bravura dello scrittore irpino è evidente. Non bada al sottile e non ha paura di pitturare malissimo i suoi pessimi colleghi pronti a cambiar casacca in base agli avvenimenti, pronti a cantar Bandiera Rossa e subito dopo Faccetta Nera. L’essere umano si adatta, cerca il compromesso. «Forse siamo tutti favorevoli a un regime di dittatura – dice sconsolato Troisi – perché proibisce le critiche contro di noi». Sarà sempre ricordato per il suo immenso coraggio. Quest’irpino narrò impetuosamente l’italico decadimento della giustizia. Anticipò i tempi, fu un pioniere indiscusso. Tuttavia i giudici sono uomini…

     
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