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  • Romeo Castiglione 2:03 pm il 13 August 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: baronia, ettore scola, , nomadi il paese delle favole, , paesi irpini, , , , trevico torino   

    Il balcone dell’Irpinia 

    Salendo, gnanando verso il cielo, verso il sun… waiting… in attesa please wait un pocopoco di english sulle strade della Baronia assolata: summer di fuoco, sabato, controra di sabato cioè quando uno deve stara a casa… io sto andando  a Trevico e giusto così per curiosità nientediché un pizzico di curiosità un bel travel per la Baronia, per zone belle davvero. Trevico, il paese più alto: so’ mille metri d’altezza e qualcosa in più, il paese di Fortunato Santospirito… chi è? Vabbuò allora non avete visto il film di Ettore Scola “Trevico Torino viaggio nel Fiat Nam”. Fortunato l’operaio, quello ca rice ca noi irpini amma trovà ‘o lavoro llocco e non amma parte p”o nord a jettà sulo ‘o sango… Fortunato che rice “sono di Trevico in provincia di Avellino, no songo re Treviso”.

    Si sale… con la macchina. Mercedes del 1984, si sale… chi l’avrebbe mai detto. Sale la macchina, curvoni pesanti, il sole che picchia, le cicale anche qui, la musica dei Nomadi nello stereo – il paese delle favole: Peter pan non lotta più ha venduto il suo pugnale, / Capitan Uncino manda Wendy / a battere sul viale, / l’isola incantata è già stata lottizzata. Non lotta più peter pan perché s”a venduto ‘o pugnale pe’ dieci euro… i sordi pe’ ddue pacchetti ‘e sigarette; peter pan se mette a fumà pecché si è scocciato… stanco no… diciamo scocciato. Tipo cose v”a chiagniti vuoi. Poi Wendy… vabbuò…. e l’isola incantanta…. levammo mano….

    Trevico – Irpinia – Baronia. Penso a Orazio, il grande Orazio. Il viaggio a Brindisi, le cose dette, la locandiera i sogni di un uomo antico. Ora’, dobbiamo prendere la vita così come viene senza pensare a niente, ancora oggi ti sei fatto questo bel giretto pe’ lloco nel mercedès dell’anno 1984 hai capito, caro poeta romano – stai aspettando stupidamente fino a mezzanotte una ragazza bugiarda. Sì ma chi t”a fatto fa’ ne poe’? Tutto tu… vavattenne sienti a me… ca è meglio… mica ti po’ mette a perde tiempo appiresso a essa? Ieri come oggi, in questo tempo di crisi massima. Orazio in terra di Baronia, sul tetto d’Irpinia, un balcone d’Irpinia vista paradiso

    Salgo e più salgo salgo salgo. Verso il cielo… a due passi dal cielo, toccare il sole, farsi male male male malissimo come a sempre. Lasciare i ricordi dietro… correre correre correre e sti caspita di ricordi vengono dietro; tu li vuoi lasciare arreto ma loro ti seguono e tu corri e sali e poi dici: tanto mi nascondo da qualche parte mica possono trovarmi? Tutti questi ricordi e alla fine ti trovano sempre perché sono fatti così: quando dormi ti fregano, poi ti svegli e non ti fanno dormire più. Ricordi amari e devi convivere con i ricordi e tu non vuoi. Allora proveremo di nuovo a sperderli per queste curve di Trevico in un giorno di questi.

    Cicale, fiori stupendi che spuntano, raggi del sole. Musica dei Nomadi. Un tappeto d’amore: il panorama, l’occhio che non trova muri, solo immensità ed eterno. Con un dito, il profilo dei paesi: la Puglia, il mare Adriatico che oi non se vere. Tutta colpa dell’afa. Ah, maledetta estate… forno… estate che nega la vita… il mare non lo riesci a vedere. Cicale, mi viene in mente D’Annunzio, il panismo, univocorni, profili muliebri, immenso, sogni nel cassetto – e Alice nelle bottiglie / cerca le sue meraviglie…

     
  • Romeo Castiglione 8:07 am il 5 August 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: , , estate 2018, , , stretto di barba   

    Lo stretto di Barba 

    Agosto di luce e pensieri. On the road sempre e comunque. Sulla strada, una strada piena di curve, di curve della vita: un po’ così un po’ triste. Triste la tristezza. “A volte la tristezza è quello che vogliamo” – la canzone Nuovo Pop Italiano dei Siberia nella testa. “Eccomi, misurando a passi lenti il mio destino”. La nausea, il disgusto per il mondo in putrefazione. Animali morti sulle rotte del cuore, disegni pieni di dolore tra le nuvole nel Sannio.

    Sulla strada a rincorrere un qualcosa che non c’è.  A passi lenti, il mio destino. Lo so già, i colpi… tanti colpi sullo stomaco, sulla faccia… devi imparare a restare in piedi sempre. Ricorda. Sempre. Forever. Tu ‘a sta sembe in piedi nonostante tutto. Lo sai questo? I colpi si prendono, fanno male ma si prendono. Qualcuno lo dai, qualche colpo perché devi anche difenderti.

    Un cielo d’agosto così strano e così bello. Fa caldo. Primo agosto 2018. Sopravvissuto a tante cose, in piedi ancora con gli occhi stanchi, stanchi di vedere. Benevento Ceppaloni – lo stadio Vigorito il verde così intenso le case le curve. Il castello, i vicoli. Alla ricerca di me stesso, perdersi e ritrovarsi in un posto nuovo. Incredibile. Il sole che picchia, i pensieri, le scelte della vita… i sogni da realizzare, quelli da buttare nel cestino. Scegliere in poco tempo, decidere senza futuro. A volte la tristezza è quello che vogliamo.

    Avanti veloce, le croci, le streghe, i rumori di un’estate amara. Tu non lo sai, i tuoi ricordi, posti nuovi per me. Non lo sai. Cammino nel passato sospeso tra la voglia di andare avanti e la voglia di fermarmi per non ripartire più. Avanti sotto il sole di agosto; un sole ferocissimo che ti toglie il respiro. Ombra zero – tutto normale – davvero – tutto normale. L’ombra che non ci sarà mai. Solo sole sui passi lenti. Avanti fino allo stretto di Barba. Passeggiare, le stradine, le case abbandonate, una panchina e il burrone. Panorami di stoffa e la Dormiente che dice: statti tranquillo vaglio’ ca è tutta na recita sta vita. Tu si’ fortunato pecché t”a levato ‘a maschera int’a no munno ca sta jenno a rotoli.

    Un fiume tre le rocce. Il mio picnic ad Hanging Rock. Fuori dal tempo, in un tempo tutto mio. I segni dello zodiaco, le affinità elettive, le cose che non vanno e che non andranno mai e poi mai. Perché va così, va male. Stretto di Barba, una fetta di Cina, di una Cina tutta mia. Marco Polo tra Chianche e Ceppaloni, inseguendo il corso di un fiume che porta a niente, niente di niente. Croci senza streghe; dolori di un tempo irreale. Hanging Rock a quattro passi, dentro lo specchio, attraverso lo specchio. Dimensioni parallelle tutte colorate di sogni vecchi. Le streghe non ci sono più: si sono scocciate e che anna fa’ lloco senza niente ‘a rice cchiù? Le streghe se sono andate fujute pecché qua non è cosa ‘a sta. Manco le streghe ci sono più. Restano le croci di giorni anomali, vissuti senza senso, in un’estate senza senso. Lo stretto di Barba il primo di agosto: Hanging, lucertole, suoni spaziali. Mi manca la Dormiente e non lo voglio dire. Questa è la verità. Dormiente che adesso rorme di un sonno profondissimo, nascosta dalla rocce, io stretto nello stretto di B. Così stretto strettissimo, ali di pietra, piene di sogni perduti.

    Le curve, quelle della vita. Il fiume. Lo stretto… che nasconde il mio domani: due ali di pietra, troppo pesanti. Due ali di pietra per volare, per tentare inutilmente. E resto a terra. In attesa di tempi migliori, lloco nderra dove il tempo è non tempo, dove io non sono più nessuno. Rabbia per un volo impossibile, due ali di pietra e basta. Penso al geografo arabo Al-Idrisi alla sua monumentale opera “Il libro del Re Ruggero”. I posti di tanto tempo fa: Ceppaloni il castello, il fiume sabato. Due ali di rocce, Al-Idrisi che si è rotto le scatole, Marco Polo che ha voglia di dormire, io che ho capito cosa fare.

    Ceppaloni e la strada che conduce a Benevento. I posti che fanno male, per sempre. Le cose dette e quelle non dette. Tutto fa un po’ male, molto male. Perché alla ricerca di perché. Cerchiamo risposte. Non ci sono risposte. Va così, tutto va così. Me ne frego. Tutto va così, in questo posti così belli, così terribili. Non fa niente, Romeo. Ci sei cascato. Capita. Sei già pronto per un altro viaggio.

     
  • Romeo Castiglione 1:33 pm il 19 June 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: , itg oscar d'agostino avellino, oscar d'agostino   

    Il mito di Oscar D’Agostino e una scuola di provincia 

    La luce del giorno sul banco. Una canzone nella mente: “Stavo pensando a te” di Fabri Fibra. Il tempo, torniamo indietro, oggi torniamo indietro. Destinazione anni ’80, in questa città così irreale. Restare qui e sognare, sognare e tornare indietro. Una luce anni ’80 sul viso. Io ancora qui, vivere di te nel colore sbiadito di antiche bandiere. L’Avellino in serie A. Schachner, Dirceu, Colomba. Si vola sul campo, si vola fuori dal campo. La stessa luce.

    Vedi mi sentivo strano sai perché? Stavo pensando a te. Stavo pensando a te. Oggi al Geometra, al vecchio Itg – adesso costruzioni ambiente e territorio – “Oscar D’Agostino”, in classe con i Promessi Sposi tra le mani: pensieri sulla Monaca di Monza e sul sogno di Don Rodrigo e disegni nei cassetti, progetti, mappe, carte geografiche attaccate al muro. Io che penso, che immagino, io qui nel 1987 con l’età che oggi ho, io qui a leggere Manzoni, Domenico Starnone e gli anni ’80 sono tornati solo per oggi. Le montagne che proteggono Avellino, la curva Sud del Partenio. Ieri abbiamo vinto in casa e quest’anno siamo davvero forti. Stavo pensando a te, a te che non ci sei più.

    Sconfitto come sempre, oggi torno al Geometra in un giorno del 1987 Stavo pensando a te Avellino sempre uguale e le scale di questa storica scuola della città, la biblioteca dedicata al preside Alfonso Biondi. 1987, potrebbe tranquillamente essere un giorno del 1998. Baggio con la maglia del Bologna, vedere il campione in tv, quel gol contro il Vicenza. Noi in serie C ma cosa importa! Roby Roby e la voglia di nazionale, il Guerin sportivo. Oggi, in questo giorno fuori dal tempo Stavo pensando a te… al Geometra si capisce.

    Il corridoio, il laboratorio di chimica, la foto di Oscar D’Agostino. Un chimico irpino, un grande chimico italiano. Una storia che non conoscevo. Un nome, il nome di una scuola superiore. Questo era per me, un ragazzo come tanti. Adesso quel ragazzo conosce la storia di Oscar D’Agostino. La storia di un uomo di scienza che sognava l’infinito e mi perdo dentro incredibili pensieri salendo sognando sperando. Le scale, scale vecchie e piene di storia, i pensieri dentro me. Pensare come era trent’anni fa, una provincia che vuole rinascere; il giorno da leone, il nostro. Già vissuto e non da me, vissuto dai nostri padri. Io qui, a sognare soltanto l’età dell’oro, qui oggi, in un giorno come tanti. La polvere del perduto tempo, rivestito di luce mi perdo nel tempo di ieri. Le scale, la biblioteca. Una targa in ricordo del preside Biondi. I libri di Oscar D’Agostino, libri donati da Sofia Melograni, moglie del chimico, nel1978 all’Istituto in coincidenza con l’intitolazione dell’Itg di Avellino; non solo libri, anche carte, appunti. Una donazione importante per una scuola importante: una biblioteca con volumi preziosi ,volumi di chimica scritti in inglese e in altre lingue. La bellezza, il segno immortale, il genio in pagine di libri. Io che ammiro con stupore, meraviglia, io che amo le lingue, adoro la chimica, la chimica imparata da autodidatta, a casa nei pomeriggi di primavera. Le formule, le reazioni, i legami. Gli stati solido liquido gassoso, gassosa è questa società. I metalli, esseri umani, la tavola degli elementi: siamo tutti diversi. L’acqua che bagna, il fuoco che brucia. La chimica per capire la vita, e capire e studiare, conoscere uno scienziato di origine irpina e scoprire, per caso, un testo quasi mitizzato dalla vecchia gioventù del geometra; il profilo biografico di D’Agostino scritto dall’illustre professore Giulio Pugliese, in collaborazione con Alfredo Parisi. Un testo edito nel marzo 1988 da Pergola Editore che contiene la prefazione del preside Biondi. «Sono veramente lieto presentare, – scrive il preside Alfonso Biondi nella prefazione del libro – in occasione del XX Anniversario della fondazione del nostro Istituto (anni 1965-66 della enucleazione del glorioso Luigi Amabile), questo lavoro dei Colleghi Giulio Pugliese e Alfredo Parisi nel quale è tracciato il profilo storico biografico e scientifico di Oscar D’Agostino, scienziato avellinese a cui è intestato l’Istituto». Un lavoro davvero prezioso, quello di Pugliese dedicato a D’Agostino; un lavoro pubblicato negli anni ’80, negli anni ruggenti. «Oscar D’Agostino – scrive il professore Giulio Pugliese – nasce ad Avellino il 29 agosto 1901 da Alberto D’Agostino e Carolina Nappi. Nel 1909 la sua famiglia, per ragioni di lavoro lascia Avellino e si trasferisce a Roma dove Oscar completa gli studi medi e si laurea in chimica il 17 novembre 1926. Non altro si può aggiungere riguardo al periodo avellinese di D’Agostino a causa delle scarse tracce lasciata da lui e dalla sua famiglia. Si può supporre, visto che il trasferimento della famiglia è a Roma e non, come dolorosamente accadeva in quegli anni, in America (si pensi che nel 1900 dall’intera provincia emigrano ben 10.831 persone e, addirittura, solamente nel primo semestre del 1901 gli emigranti sono circa 16.000; per raggiungere poi le 20.000 unità alla fine dell’anno), che la famiglia D’Agostino appartenesse alla borghesia impiegatizia. Supposizione avvalorata dal fatto che Oscar, come sopra detto, ha la possibilità, non di tutti a quei tempi, di continuare gli studi. Il conseguimento della laurea sembra preludere ad una brillante carriera universitaria. […] Nel 1933, nell’Istituto di Fisica in via Panisperna, un gruppo di giovani studiosi, Fermi, Sergé, Rasetti, Trabacchi (quest’ultimo era il fornitore della materia prima necessaria alle ricerche del gruppo), per poter continuare le ricerche sulla radioattività indotta, ha bisogno dell’apporto di un chimico sperimentale. A via Panisperna allora c’èra anche l’Istituto di Chimica […] Il gruppo si rivolge burocraticamente al Direttore di questo Istituto, il prof. Parravano, che senza indugio propone il prof. Oscar D’Agostino: così entra a far parte della pattuglia di giovani scienziati che, con l’ulteriore adesione di Pontecorvo, fu definita il gruppo dei sette cavalieri dell’apocalisse».

    Il professore Pugliese, ancora oggi, è amato e apprezzato dai ragazzi del Geometra, da ragazzi che non hanno mai avuto la fortuna di conoscerlo. Ragazzi di oggi che hanno sentito soltanto parlare di lui. Per non rompere il filo con il passato, per tenere unite le generazioni di ieri e di oggi con frasi del tipo “ma tu non hai conosciuto il professore Pugliese… ah, se tornasse il professore Pugliese…se tornassero quei tempi”, tempi d’oro, quando l’Itg era pieno di studenti ed era il centro pulsante di una provincia. La voglia di rinascere, noi padroni del nostro destino. Tempi d’oro, quando c’era l’Avellino in serie A e tutto andava bene, quando questa provincia era sul tetto d’Italia e il Geometra era un cuore pulsante, un grande cuore pulsante. Dall’anno scolastico 2013/2014 l’Itg e l’Agrario sono stati accorpati e hanno formato l’Istituto Superiore Istruzione Secondaria “De Sanctis – D’Agostino”; due scuole storiche della nostra città che stanno tornando ai fasti di un tempo grazie all’impegno del Preside Pietro Caterini. Ho svolto il tirocinio per l’isegnamento dell’Irc al geometra e ho avuto come tutor la professoressa Alfonsina Nazzaro, una colonna della scuola, una maestra di vita non solo per me. Oggi, resta Oscar D’Agostino, lui che sorride e che sprona i ragazzi a lottare per continuare a resistere.

     

     
  • Romeo Castiglione 1:32 pm il 19 June 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: , , compositori irpini, gaetano di vito, , museo alla ricerca delle cose perdute bonito   

    Il sogno tedesco di Buongiorno 

    Certo, tornerò. Tornerò presto. A Bonito, si capisce. Le strade, le mie strade preferite: da Montefalcione a Venticano, avanti c’è Pianopantano. Deviazione per Bonito. Un oceano verde, le campagne. In macchina, al volante, nello stereo Le Orme con canzoni come Regina al Troubadour Se io Lavoro Immensa Distesa. Suoni venuti dagli anni ’70, direttamente dagli anni ’70; un’immensa distesa il mio pensiero. Guido la mia a macchina per le mie strade preferite.

    Sulle strade di un giorno vissuto e ancora da vivere domani. Finalmente Bonito, il cimitero sulla sinistra, dove riposa Alfredo Covelli. Sempre diritto: appuntamento con Gaetano Di Vito e con Valerio Massimo Miletti. Oggi vado a vedere il Palazzo Pagella Buongiorno; ho già visitato il Museo “Alla ricerca delle cose perdute” di Gaetano la settimana scorsa.

    Una meraviglia davvero il Museo. Stupore, gioia. Io in mezzo alle cose che non ci appartengono più, alle cose ancora vive. Odori antichissimi e odori inebrianti di primavera. Le stanze, piene zeppe di oggetti, ma piene piene. Un’opera d’arte: latta, zappe, pietre, vestiti, divise militari, cappelli, disegni. Un’opera d’arte nelle incredibili stanze del Museo. Una sensazione strana, bella. Gaetano Di Vito, un ragazzo d’oro, un ragazzo come me. Un ragazzo che ha realizzato un’opera d’arte. Parlo con lui, pare che io conosca Gaetano da una vita, eppure ci conosciamo da poco; le sue parole, parole vive, vive come queste pietre di tanto tempo fa. Ci capiamo al volo, io e Gaetano. Ci piacciono le stesse cose, le stesse storie.

    Le storie del passato, quelle che mi piacciono, le storie di paese: uomini come noi, più fortunati di noi forse, perché non hanno visto questi strani giorni. Trascorrere momenti così, provare emozione per cose normali, scoprire un libro vecchissimo, ingiallito.

    Per le strade del paese. Io, Gaetano e il consigliere comunale delegato alla cultura Valerio Massimo Miletti. Sono tornato in paese per ammirare il Palazzo Pagella Buongiorno, e tornerò ancora perché adoro questo paese, un paese ricco di tradizioni. Un’emozione incredibile, una dimora bellissima. Valerio mi racconta la storia del grande Crescenzo Buongiorno, un uomo con una storia importante. Mi ha parlato della Germania, della musica, in una Palazzo dell’Irpinia. Una macchina del tempo, un viaggio nel passato a pochi chilometri da casa mia, un tuffo nell’800, in un’epoca malinconica, segnata da cose perdute, da un regno perduto, un fugace incontro con il passato, con un passato tramutato in pietra.

    Un giorno che non dimenticherò mai più: attraversare le barriere del tempo, restare nel tempo che piace a me sognando lottando sperando immaginando… tornare nel passato mai visto in una dimora mai vista prima d’ora che resterà nei miei ricordi, nei ricordi di un ragazzo di provincia.

    «Il Palazzo Pagella Buongiorno – scrive Valerio Massimo Miletti – risale al XVIII secolo ed è situato nel centro storico di Bonito, di fronte alla chiesa Madre a pochi passi dal Largo Mario Gemma, dove è ubicato il Municipio. Fu inizialmente di proprietà della famiglia Capozzi che lo vendette alla fine dell’ 800, per trasferirsi negli Stati Uniti, al musicista Crescenzo Buongiorno e a sua Sorella Rosaria».

    Casa Pagella. Ci siamo certo, ci siamo. Facciamo finta di essere alla fine dell’800, un giorno di marzo di un anno qualsiasi. In questa casa, con Gaetano Di Vito e Valerio Massimo Miletti. Un chiarore incredibile, mattonelle blu, tutto rimasto com’era prima. C’è ancora il Re, fine ‘800 o giù di lì, noi adesso, nell’800.

    Crescenzo Buongiorno, il maestro, il musicista. Il suo ritratto, le sue cose, quelle fasce tricolore, il nome di una città Dresda, una città che io collego alla squadra di calcio Dinamo Dresda, il nome di una città che dice qualcosa in più: a Dresda… dove Crescenzio Buongiorno visse giorni importanti.

    «Crescenzo Buongiorno – prosegue Valerio Massimo Miletti – nacque a Bonito il 9 agosto 1864 […]. Mostratosi ben presto dotato di un talento musicale non comune, iniziò a suonare il piffero […]. Lasciata l’Italia con una compagnia di concerto, della quale si assunse la direzione, il musicista fu in Svizzera, in Austria e infine a Dresda, dove trovò l’apprezzamento e la protezione del barone Serge von Huppman Valbella che lo introdusse negli ambienti artistici tedeschi. In Germania, terra di Beethoven e di Wagner, trovò davvero tutto ciò che cercava: ispirazione, apprezzamento e amore. Conobbe e sposò, infatti, la prussiana Anna Maddalena Berndorf che gli dette due figlie, Italia nel 1896 e Alba nel 1898. Nella sua nuova patria riprese la produzione di opere con la nuova edizione dell’Etelka, come già detto, e poi con La festa del Carro – libretto di Ferdinando Stiati – (ispirata alla famosa festa mirebellana), rappresentata al Teatro nuovo di Lipsia il 24 maggio 1896. Buongiorno, infatti, era molto legato a Mirabella dove, contrariamente a Bonito, aveva trovato un ambiente favorevole e dove trascorreva delle ore felici, soprattutto durante i mesi di vacanza» .Non conoscevo la storia di Buongiorno. Morì il 7 novembre 1903 a soli 39 anni. Egli è sepolto in Germania. I suoi resti sono tumulati a Dresda.

    Dopo la sua morte arrivarono alla stazione di Apice numerose casse contenenti gli effetti personali del maestro e tante altre cose. Cose che riempiono di tristezza e bellezza gli angoli del Palazzo: fasce tricolore, fotografie e altro ancora. Avrei voluto vederlo, per un solo secondo, vedere il musicista. Lui che suona il pianoforte e noi che ascoltiamo in silenzio; l’abbiamo sentito lo stesso, perché lui c’era, c’era, un solo minuto e poi il buio. Un raggio di sole nella stanza, sui tasti del pianoforte. Le mani sui tasti e noi in silenzio, in silenzio e ascoltare la melodia dell’anima, del giorno perduto, di sole nascosto e treni, treni provenienti dalla Germania e diretti ad Apice.

    Ah, Apice, mi ritorni in mente; un giorno di tanto tempo fa, non ero ancora nato, non eravamo ancora nati. Un treno proveniente dalla Germania. Destinazione Apice: tutto il mondo in un treno, in un treno fermo alla stazione. Un uomo che non c’è più, che rivive oggi nelle stanze di Palazzo Pagella.

    Nuovamente per le strade del Bonito, un po’ frastornato da tanta emozione. Penso alla storia di Buongiorno, a Mirebella Eclano, poi penso a Dresda, penso al Museo di Gaetano, poi penso a Covelli. E Gaetano parla di Covelli. Il leader monarchico passeggiava per le strade, di chi sei figlio? Con la sua voce inconfondibile, un uomo del Sud, una persona onesta, un grande politico d’opposizione.

    Covelli che oggi per me passeggia di nuovo per le strade di Bonito, nella mia mente, passeggia nei miei sogni. Covelli e Buongiorno, tutti e due insieme soltanto per me, in un sogno, un sogno ad occhi aperti. Fantasie, soltanto fantasie.

    Oggi. Io in questo paese. Finalmente, un paese che è parte della mia vita. Oggi torna per me l’800. E tornerò, certo. Tornerò perché ci sono tante cose da vedere.

    Sono le 13:00 di un sabato di primavera e sono in ritardo. Un tuffo, un altro viaggio: epoche lontane eppure tanto vicine. Scegliamo noi, scegliamo noi in quale secolo sedere. Usciamo da un sogno, entriamo in un altro sogno. Le favole, le nostra favole di paese, favole dimenticate, racconti antichi.

    Tornerò. Non si può ammirare tutto c”a neve rint”a sacca, con la fretta. Bisogna tornare assolutamente, tornare per apprezzare le bellezze di un piccolo paese. Ancora non hai visto la mummia e altre cose. In una volta sola non vedi niente, certo. Bonito merita di essere ammirata.

     
  • Romeo Castiglione 1:31 pm il 19 June 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: chicago, irpini in america, john melchione,   

    Melchione, dall’Irpinia a Chicago con furore 

    Manocalzati e l’America, un legame indissolubile. Donne, uomini. Volti conosciuti, gente sconosciuta. Italiani all’estero, italiani negli Usa. Manocalzati chiama America, per riannodare il filo con il passato, per riscoprire le radici. Il sindaco Arturo De Masi cercò, nel suo piccolo, di allargare i confini, di abbracciare i fratelli d’oltre oceano: dal paese irpino a Newark nel 1967.

    Amici americani, figli d’Irpinia che vivono da tempo in America, le case degli emigranti, le storie. Un sindaco che tentò l’impossibile, che realizzò un sogno; un sogno condiviso da tutti, da tutta la comunità. Il legame con gli Stati Uniti, un legame importante.

    Americani di Manocalzati. Americani e Manocalzati. Da John Ciardi a Ralph Gualberto. Personaggi che hanno visitato Manocalzati, che hanno ammirato il paese irpino negli anni ’60.

    Un legame, quello con gli italo americani, ancora molto forte. Arturo De Masi non c’è più e immagino… chissà… forse lo conosceva… conosceva John Melchione, un disegnatore d’abiti molto famoso nella Chicago degli anni ’30, un uomo che è nato a Manocalzati. Non lo so, immagino… perché no… uno come lui, uno come Arturo, sapeva tutto. Un nome nuovo per me: Melchione, John Melchione. Un irpino che ha vissuto il suo periodo di splendore a Chicago negli anni ’30 del ‘900.

    Come ho conosciuto la storia di Melchione? Semplice. Ho trovato un vecchio libro scritto in lingua inglese dal titolo “Italians in Chicago”, un libro dedicato agli italiani famosi che vivevano nella Chicago degli anni ’30; un posto al sole per i migliori e tra questi c’è anche il nostro concittadino Joseph Melchione. Un nome che dice poco. Melchione o Melchionne? Non è dato sapere. Non possiamo sapere con certezza dove abitava il Nostro in paese: era un manocalzatese o un sanbarbatese? Molto probabile a questo punto che abbia vissuto a San Barbato. Ma è facile essere smentiti.

    Senza ombra di dubbio per gli americani si chiamava Joseph (Giuseppe) Melchione. Ho poche notizie in merito a questo illustre concittadino. Sono sincero, ho scoperto la sua storia soltanto un paio di mesi fa e ho cercato di scoprire qualcosa in più. E quel “qualcosa in più”, come capita spesso, l’ho scoperto da solo, tramite ricerche, traduzioni e intuizioni. Ecco la mia traduzione dall’inglese. “Joseph Melchione, capo del Designing Department of Hart Shaffner and Marx, una delle più importanti firme del settore negli Stati Uniti. È uno degli uomini che è stato strumentale al processo di trasformazione di massa negli Stati Uniti.

    Nacque a Manocalzati, provincia di Avellino, Italia, nel 1881. A quindi anni egli raggiunge suo padre Gaetano a New York e lavora come apprendista nel settore della sartoria. Lavora tutto il giorno, per tutti i giorni, e poi attende la sera per recarsi alla scuola serale per perfezionare l’inglese e ha molto successo e allo stesso tempo prende lezioni private di disegno abiti da uomo. Dopo l’apprendimento lavora al taglio abito per dieci anni, ottenendo un’ottima preparazione per i grandi abiti da uomo.Nel 1912, egli si è recato a Chicago ed è entrato nella firma Hart, Shaffner and Marx come disegnatore. Dopo tre anni fu nominato capo di questo dipartimento. Egli ottiene ulteriori miglioramenti nel taglio abiti da uomo, finché non è riuscito a prendere il primo posto tra quelli che hanno trasformato l’apparenza dalla classe operaia, uno dei più grandi contribuiti al livellamento delle differenze di classe che il mondo abbia conosciuto. Ma anche il disegno dei grandi abiti fu migliorato, fino a che il commercio all’ingrosso divenne un formidabile rivale dei sarti, che avevano mantenuto per anni il mercato”.

    Da queste parole riusciamo a capire che il Nostro era davvero un grande stilista, uno che, come si dice in questi casi, si è fatto da solo e ha fatto tanta ma tanta gavetta. Mi piace perché ha fatto tutto da solo: era un autodidatta. Ha imparato l’inglese, ha perfezionato il taglio abiti. Ha tentato di trasformare la moda della classe operaia working class, una trasformazione per tentare un livellamento.

    Uno in gamba davvero, che ha trovato fortuna in America, giornate dedicate al disegno, al perfezionamento del taglio, la lingua inglese.

    “Clothes make men, says a German proverb. If this be true, then the Italian emigrant from Southern Italy has made the American nation, for the Italians predominate now as talilors, particulary as designers, and they are important not only in numbers, but in excellency of achievement”.

    Sì sì hanno ragione i tedeschi: l’abito fa il monaco… come dice Manuel Fantoni nel film “Borotalco” di Carlo Verdone “lo fa!”. Altro che… lo fa, certo. Noi, meridionali, abbiamo fatto grande l’America, il sogno americano, il nostro sogno, un sogno che si è realizzato, un sogno oramai scomparsi. Eravamo bravi, molto bravi, il massimo, l’eccellenza. Intelligenti, brillanti, fantasiosi. Un popolo laborioso in una nazione laboriosa; noi meridionali, abbiamo dato lustro alla moda in America.

    “The italian taylors are predominantly of Southern extraction… the manifacture of the clothes fell more and more to the share of men from the south, who, when they came to this country, brought with them a high standard of workmenship”.

    Il Nostro lavorava in una delle più grandi ditte di moda di Chicago, la ditta Hart Schaffner & Marx. La compagnia nacque nel 1887 per merito dei fratelli Henry e Max Hart; i due fratelli aprirono un piccolo negozio da uomo a Chicago, un piccolo negozio, Henry e il fratello, la ditta Harry Hart and Brother muove i primi passi; nel 1879 cambia il nome: non più Harry Hart and Brother ma Hart, Abt and Marx. Entrano a far parte della squadra Levi Abt and Marcus Marx; dopo otto anni Levi e Marcus escono di scena e preleva la ditta un loro cugino di nome Joseph Schaffner. Ecco un altro cambio di nome: Hart Schaffner & Marx.

    Negli anni ’40 la ditta produce anche divise militari dell’esercito americano, divise per i soldati americani della seconda guerra mondiale.

    Melchione il manocalzatese, il disegnatore, lo stilista di moda. La sua storia, sconosciuta a tanta gente, ignota. Chissà chi era, cosa faceva, cosa pensava. Un manocalzatese come me, che ha vissuto in America gran parte della sua vita. Un irpino, un meridionale, uno con Manocalzati nel cuore. Un figlio dell’Irpinia che ha trovato il successo oltre i confini dell’Italia. Una bella storia, una di quelle che piace alla gente.

    E mi viene da pensare… come sempre. Chissà com’era la Chicago degli anni ‘30, chissà com’era la vita, i suoni, i rumori, le luci delle insegne, la voce delle persone, la musica nei locali, un po’ di Jazz in quelle serate tristi.

    John Melchione, dopo il lavoro, in un locale famoso, ascoltare la musica Jazz, con la malinconia nel cuore, per qualcosa che non c’è più, da un pezzo.

     
  • Romeo Castiglione 1:29 pm il 19 June 2018 Permalink | Rispondi
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    Lo Specus Martyrum e quel libro di Cassese 

    Una giornata passata un po’ così, con la malinconia dentro per qualcosa che non c’è più, qualcosa che forse non è mai esistita: primavera in Irpinia, io da solo. Atripalda alle 10 del mattino, prima di andare ad Avellino. Ad Atripalda da solo, io e basta. La macchina, le cose di tutti i giorni, le persone che camminano, io nel presente, in un presente che odora di passato.

    Visita allo Specus di Atripalda, in questo sabato primaverile ma primaverile davvero cioè non piove e c’è un bel sole pulito. Passo dopo passo, verso la Chiesa di Sant’Ippolisto, cammino da solo, e penso come sempre. Sto pensando al compianto professore Gennaro Passaro, al corso di laurea in Scienze Religiose, quell’esame di Storia della Chiesa locale, studiavo così, quasi distrattamente, poi ho capito, ho capito che questo esame di Storia della Chiesa locale è uno dei più importanti del corso di laurea in Scienze Religione.

    Atripalda, Prata, le catacombe, epigrafe e personaggi di primo piano come Don Nicola Gambino. Don Nicola scriveva: “Sembra che gli studiosi non trovino nello Specus un motivo di manifesta antichità che stimoli il oro interesse, perché quel luogo è stato troppo trasformato; ormai è tutto orrendamente moderno”.

    Mai stato alla Specus Martyrum prima d’ora: per uno che si è laureato in scienze religiose… va be’… l’importante è rimediare e stamattina sto qui, in questo posto così strano e bello allo stesso tempo; una guida della Pro Loco Atripalda racconta a me la storia di Sant’Ippolisto. Parole di tanti e tanti anni fa. Sant’Ippolisto, legato alla coda dei un toro, morto nel 303. Una morte orribile ha fatto Sant’Ippolisto; il suo corpo senza vita, malridotto, fu salvato da due matrone romane Lucrezia e Massimilla.

    Questa è la storia, una storia brutta. E c’è un dipinto, un dipinto che fa capire bene com’è andata veramente. Sai, ho pensato anche a Leopoldo Cassese, sì perché lui scrisse nel suo lavoro “Lo Specus martyrum di Atripalda”: il dipinto non è un granché più o meno “un affresco secenteso alquanto rozzo”. Scrisse così. Devo dirti la verità. A me il dipinto piace. E questo libro di Cassese, cioè “Lo Specus martyrum di Atripalda, l’ho cercato per tanto tempo. Un libro che ho trovato presso la sede della Pro Loco di Atripalda; un volume molto bello, importante, scritto negli anni ’30 del ‘900. Un pezzo di storia della nostra provincia.

    Io qui, allo Specus, una scritta in latino per terra. Toglietevi le scarpe che qua è terra santa, una frase dell’esodo, scritta in Latino. Ah, quanta sofferenza i primi cristiani: scolatoio, nascondigli, sangue, pianto. Tutto questo per difendere un’idea. Io qui, la cappella del Ricciardi, gli occhi verso il soffitto. Troppo bello, quanta bellezza, perfezione e stiamo parlando di un’opera del ‘700, una cosa davvero stupenda. Una bellezza nella bellezza. La cappella del Tesoro, un tesoro di bellezza.

    La bellezza, quella che vive ad Atripalda. Poi dicono che non abbiamo niente da far vedere ai turisti, ma non scherziamo che pochi hanno quello che abbiamo noi, pochi hanno inoltre un Leopoldo Cassese da far conoscere alle nuove generazioni. “Tra i monumenti di Cristiana Archeologia – scrive Cassese – senza dubbio lo Specus Martyrum di Atripalda è uno dei più insigni che vantino le nostre provincie. Esso costituisce una delle principali glorie ed un centro della primitiva Cristianità del Sannio Irpino, e in tutti i tempi non è stato meno famoso di quello di S. Felice a Cimitile presso Nola, di quello di S. Cesidio presso Trasacco della Marsica, e della Basilica e della Catacomba della vicina Prata. Sventuratamente i più antichi documenti, sia manoscritti che lapidari, intorno ai nostri Martiri, sono andati perduti; solo rimangono pochi titoli, ma di capitale importanza, per mera fortuna salvati all’ingiuria del tempo, che costituiscono la sola materia di studio per chi voglia illustrare il nostro ipogeo”.

    Peccato, peccato perché sono venuto da solo. Penso, dico qualcosa alla guida, giusto qualcosa. Ci voleva un po’ di compagnia, con Pellegrino per esempio… tutta un’altra musica. Va be’ non fa niente. Mi accontento lo stesso.

    Ho pensato alle Matrone romane Lucrezia e Massimilla. Chissà com’erano, cosa facevano. “Dai ricordi tuttavia, – prosegue Cassese – che rimangono delle diverse ricognizioni, e da alcuni brani di un Leggendario di Ruggiero, Vescovo di Avellino dal 1219 al 1231, ci è concesso di ricostruire approssimativamente l’originaria forma dello Specus. Si scendeva ad esso per una scala di marmo di undici gradini, in campo alla quale, sull’arco della porta, vi fu fino al 1585 una pietra triangolare recante la seguente iscrizione: – Hic iacent nonnulla corpora Sanctorum quorum nomina intus describuntur quae Matronae Abellinensen, pietate coactae sepelierunt, . – Nella cripta, composta unicamente dall’attuale area dei Martiri si vedeva a destra, costruito nella parete, il sarcofago di S. Sabino; dirimpetto poi, a sinistra, l’altro di S. Romolo. Il pavimento era ricoperto di un ricco mosaico, e sulla parete dell’abside era dipinta l’immagine di Cristo, circondato da venti martiri, dieci per lato, e ciascuno col nome ed altre indicazioni, in atto di essere da quello coronati”.

    Un libro, una città, un luogo di culto. La cappella del Ricciardi. Ho visto tutto questo, stamattina. “I lavori di ampliamento, – scrive Cassese – che attestano la cura e l’amore che gli Atripaldesi han sempre avuto per il sacro luogo, non si arrestano qui, perché nel 1728 si volle costruire la graziosa cappella, così detta del Tesoro, che fu bellamente affrescata dal valente pittore Michele Ricciardi. In seguito, nel 1859, volendo l’Arciprete Ottavio De Sapia rimodernare il cancello che chiudeva l’area dei Martiri, nella quale, per antica tradizione non entravano che i soli sacerdoti, e a piedi scalzi, furono rimossi altri sette corpi. Il risultato di tutte queste investigazioni fu raccolto nel 1874 dal dottissimo Cardinale Domenico Bartolini, allora Cosultore della Sacra Congregazione della Indulgenze e Reliquie, il quale, col concorso dell’illustre archeologo Giovanni Battista De Rossi, scrisse un’elaborata memoria sui nostri Martiri; e l’anno di poi Mons. Gennaro Aspreno Galante cominciò a lavorare intorno alla storia del sacro ipogeo che per sedici anni fu centro prediletto dei suoi studi, condotti con illuminato sapere e con profondo amore e per i quali la sua venerata memoria merita l’omaggio della gratitudine di Atripalda tutta”.

    Eccomi all’aria aperta. Fine della visita. Cassese, Atripalda, Ricciardi, Sant’ Ippolisto, i Martiri, il toro, Lucrezia e Massimilla, San Sabino, Aspreno Galante, il mecenate. Quante cose in una mattina, quante cose nella mente, una mente che macina sogni proietta il futuro sul muro, un muro che sta in piedi da anni e anni.

    Le cose da far vedere ai turisti: il Cristo Pantocratore dello Specus. Un affresco del XIV secolo e altro e altro, un affresco meraviglioso, lo sguardo di Cristo, i colori, quello che c’è da ammirare.

    Ho questo libro di Cassese e altri lavori, come quello curato da Giuseppe Muollo “Specus Martyrum arte e restauro” e il lavoro molto datato di Gennaro Aspreno Galante.

     

     
  • Romeo Castiglione 11:24 am il 18 June 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: , atripaldesi all'estero, italiani in america, meridionali in america, newark, sabino montefresco   

    Montefresco, il mercante atripaldese di Newark 

    Irpini all’esterno, atripaldesi in america. La storia, la nostra storia, uomini del passato, uomini che tornano, che sono stati messi nel dimenticatoio, l’oblio, un lungo oblio. Uomini atripaldesi che tornano e che vivono ancora nelle parole, sulla carta di un giornale. Gente che, come si dice dalle nostre parti, si è fatta no mazzo tanto, giusto per fare capire. Intraprendenti, scaltri.  Uomini dimenticati, che non ricordati, uomini come l’atripaldese Sabino Montefresco. Chi era costui? Era un imprenditore che ha trovato “l’America” in America, che ha sfondato. Un personaggio nuovo per me, penso per tanta gente. Chissà chi lo conosceva… non ho mai sentito parlare di quest’uomo, poi ho trovato un libro, scritto sempre in lingua inglese, un libro molto vecchio: stiamo parlando del testo “A history of the city of Newark, New Jersey : embracing practically two and a half centuries, 1666-1913” del 1913. La storia della città di Newark, la storia fatta dagli uomini più importanti, tra questi c’è anche il nostro Sabino Montefresco.

    Montrefresco o Montefusco? Non è dato sapere con certezza. Una ricerca che mi ha fatto capire tante cose: sempre da solo, faccio le cose sempre da solo, perché mi fido di poche persone e poi nessuno di aiuta, va be’, non fa niente. Però… quante cose vengono fuori grazie a un vecchio libro. Voi lo sapevate? Lo si che… e tante altre cose. Atripalda, terra di mercanti, terra di uomini intelligenti che hanno fatto la storia dell’Irpinia e non solo.

    Ecco la traduzione, una traduzione veloce veloce. Tanto si capisce. “Sabino Montefresco, mercante e importatore della città di Newark New Jersey. Ha assolto se stesso in tutte le relazioni della vita con un’grande abilità e ha guadagnato la stima di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Lui era il figlio di Vincenzo Montefresco, un mercante di Atruelda (Atripalda) Italia.  Sabino Monteferesco riceve un’eccellente educazione a scuola nella città di Atripalda, nacque ad Atripalda il 24 settembre 1870. Dopo la scuola impara l’arte del calzolaio e inizia il suo cammino nel commercio, un cammino che è durato vent’anni. Alla fine di questo percorso egli approdò in America e andò nella città di Newark, sua città di residenza dal 1892. Egli non trovò difficoltà ed entrò nella ditta Bannister Shoe Company; rimase in questa ditta sette anni. Abbandona il settore delle scarpe ed entra nel settore della frutta al dettaglio e si divide tra Newark e New York. Vende i suoi prodotti per due anni. Dopo inizia a importare e vendere vino, olio d’oliva e prodotti vari, spezie. Divenne così un personaggio famoso. Fu un membro della Treze Italia Lodge, libera massoneria; Galgary lodge. Ordine indipendente di Odd Fellows, and Foresters of America. Grazie alla sua abilità e al fiuto per gli affari è stato eletto in una posizione ufficiale di prestigio Liberty Investiment Association e nella Tripoli investiment association.  Politicamente il signor Montefresco è un progressista repubblicano, ed sempre militato in quest’area e ha partecipato agli incontri pubblici; è sposato con Teresa Pepe ed ha tre figli:  Mary, Ida e James”.

    Riusciamo a capire che il Nostro ha frequentato le scuole di Atripalda. Atripalda che è detta dagli abitanti di Newark anche Atruelda… no no? Atruelda… un nome nuovo, un nome nuovo per me è anche quello di Sabino Montefresco, Montefresco o Montefusco… boh… gli americano lo chiamavano Montefresco e questo penso possa bastare. Egli nacque ad Atripalda. Sto parlando di Sabino; emigrò negli Usa nel 1892. Un uomo intelligente, con il fiuto per gli affari, un atripaldese in gamba, un atripaldese americano. Prima calzolaio, poi venditore di frutta, poi importatore di vino e di olio. La politica nel partito repubblicano, molti meridionali americani hanno supportato i progetti del partito repubblicano.

    Egli ha lavorato nella Bannister Shoe Company, una delle migliori ditte di Newark, una ditta attiva dal 1890 al 1935. Molti irpini, all’inizio del ‘900 hanno lavorato nelle migliori ditte americane d’abbigliamento e non solo. Questa cose ci vede fare riflettere: abbiamo avuto grandi opportunità, gli irpini non si abbattono mai, gli irpini del passato hanno fatto la storia.

    Un tuttofare questo Montefresco, come detto, un uomo che ha capito tutto della vita. Ha badato soltanto al profitto ed è stato un grande, ha saputo cogliere le opportunità che la vita ha offerto a lui; probabilmente aveva un carattere buono e grazie al suo carattere ha realizzato una bella ricchezza. Montefresco (o Montefusco) è senza ombra di dubbio uno che ha capito tutto della vita: ha massimizzato i profitti, ha massimizzato le occasioni, non ha sprecare niente, ha pensare soltanto a se stesso e nulla più. Sabino Montefresco ha fatto questo, ed è senza ombra di dubbio un personaggio da riscoprire. Da riscoprire sì, solo per il fiuto dell’affare.  Solo per quello, comunque era una massone, e questa cosa non mi piace più di tanto.

    Nella città di Newark vivono ancora tante persone d’origine irpina, c’è ancora un legame forte con l’irpinia a Newardk. Italiani d’America che amano la Patria italiana, che conservano i vessilli tricolore nelle case, le madonne, i ricordi dell’Italia, il mandolino, gli spaghetti, la pizza, chi è italiano resta italiano, anzi, chi è meridionale resta meridionale, nonostante tutto. Irpini a Newark, irpini a Boston. L’Irpino, il meridionale lo trovi ovunque, come scriveva Peppino Pisani. Ovunque e comunque. Soprattutto in America, in un’America che forse non c’è più, nell’America d’inizio ‘900. Paisà paisà dova sta quest’America? Quest’America tanto sognata. Non c’è più.

     
  • Romeo Castiglione 3:05 pm il 1 May 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: abellinum, , domus marcus vipsanius primigenius, keppel craven, minanzio magio, , silla, swinburne   

    Un viaggio nella storia tra le rovine di Abellinum 

    Appuntamento ad Abellinum, di sabato mattina, appuntamento con chi? Con la storia ovviamente. Noi, in questa giornata così strana così grigia e un po’ di sole nascosto da veli di carta, un po’ di sole che confonde i pensieri. Passeggiare per i resti di qualcosa che fu, che fu Storia. Una giornata ventosa, strana, di quelle che ti frega. Ti vesti leggero perché ieri faceva caldo e si poteva stare anche a mezze maniche e oggi un po’ meno e ti metti e ti levi il giubbotto. I capelli al vento, gli occhiali da sole neri e stamattina non ci volevano.

    Abellinum. Muro ducta Colonia. Lege Sempronia deducta. Iter populo non debetur. Ager ejus Veteranis est adsignatus  – Sesto Giulio Frontino – De coloniis o Liber coloniarum, queste parole nella testa. Muro ducta Colonia, delimitata in colonia mediate un muro, opera reticolata, bellissimo ancora adesso. Io, Pellegrino La Bruna e una guida turistica della Pro Loco. Io che penso cose e cose e cose, io che penso a Concetto Marchesi, a quella frase: ogni uomo è moderno nell’epoca in cui vive. Io, la mia vita, il mio corpo, il corpo di un antico romano, lo stesso, gli stessi pensieri, gli stessi sentimenti odio amore rabbia, io che ammiro Silla nonostante tutto: perché ha fatto un “mazzo tanto” ai populares e con i populares, così dicono perchè io non c’ero, si schierò anche Abellinum.

    La guida dice che i Sanniti venivano a pregare ad Abellinum, e una cinta muraria, costruita in opus quadratum, risale al periodo sannitico del II secolo a.c. I sanniti, guerrieri, con quella voglia di combattere sempre e gli  Abellinates hanno combattuto in tutte le guerre sannitiche e non so perché parlo di Pirro, le guerre pirriche con gli elefanti e la battaglia di Eraclea,  gli elefanti, i romani non sapevano cosa fare, con delle bestie simili, io dico così per scherzo: i romani iniziarono a tagliare le proboscidi, pensa i romani che non sanno cosa fare con animali strani ma strani davvero. L’ho letto da qualche parte dico.

    Una vasta area verde, fiori gialli, tanti fiori gialli in aprile, le nocciole, il monte Partenio. Atripalda, io non mi dimentico, mi ricordo di te, anche stamattina in una stranissima mattina senza troppa luce. Ricordi sotterrati, oltre la Storia c’è la vita, un campo da calcio: lo stadio Valleverde. Io che seguivo quella squadra di Promozione, l’Abellinum, tutto l’autunno e buona parte dell’inverno, sui gradoni della stadio Valleverde, soffrire per una salvezza non raggiunta, soffrire e guardare di dà del giorno i resti di antiche civiltà scomparse, con gli occhi tristi e sapere poco o niente. Lucio Cornelio Silla, la sua ferocia, il suo disprezzo verso il mondo, verso un mondo che già faceva schifo. Lo sapeva, lui, Lucio Cornelio Silla. Veneria Abellinatiu, in onore di Venere, la dea prediletta di Silla.

    Stamattina, una lucertola sulle pietre di epoche incredibili, il re lucertola, io non sono Jim Morrison, avrei voluto esserlo: una lucertola su quello che resta, dove Marcus Vipsanius Primigenius camminava. Anni luce… un’altra dimensione… e noi, in ritardo di secoli, secoli, secoli, un appuntamento mancato. Quello che resta di una domus, noi, come scrive John Ciardi, ci adattiamo in qualsiasi secolo viviamo. E ci adattiamo a vivere in questa società, in questa lurida società piena di vuoto. E cosa resterà della nostra civiltà? Me lo chiedo con insistenza, da tanto troppo tempo; resterà questo grande vuoto, questo senso di disgusto. Resteranno le fabbriche, gli stadi delle grandi città, le ciminiere, le acciaierie. Nati in un tempo sbagliato, sballato. Al tramonto, un tramonto dell’occidente così triste.

    Con le scarpe sull’erba, le vespe danzano sui fiori, insetti e altre lucertole. Una storia che rivede la luce. Mi vengono in mente tante cose, cose non dette. Il naso rotto di quel romano di pietra, i cristiani, uno sfregio, un segno di superiorità come a dire te lo meriti. Non mi lascia indifferente. Abellinum, i romani e Silla, sempre lui. Mi viene in mente un frammento del libro Atripalda Profilo Storico del professore Francesco Barra. Com’era questa città antica, che cosa è oggi. “Centro religioso, militare e commerciale degli Irpini – scrive il professore Francesco Barra nel libro “Atripalda profilo storico – (…) Abellinum, fu espugnata dai Romani nel 293 a. Cr. Dopo la sanguinosa battaglia di Aquilonia, che concluse le guerre sannitiche. Da allora, e fino alla “guerra sociale” (91-89 a. Cr.), Abellinum fu “civitas foederata” di Roma, tenuta cioè a prestazioni e tributi allo Stato romano, ma dotata dei propri antichi ordinamenti e di ampio autonomia amministrativa. La “guerra sociale” e la successiva guerra civile tra Mario e Silla (86-82 a. Cr.) segnarono una svolta decisiva nel processo di romanizzazione dell’Irpinia e del Sannio. Nell’89 a. Cr., infatti, Silla, occupate Pompei, Ercolano e Stabia, e disfatto presso Nola un esercito italico, con una marcia fulminea penetrò in Irpinia, espugnando Eclano, mentre il suo luogotenente, l’eclanese filoromano Minanzio Magio, conquistava Conza e sottometteva con spietata violenza le popolazioni irpine insorte contro Roma”.

    E penso a Swinburne e al suo Viaggio nel nelle Due Sicile. “We made an excursion, two miles to the right, to Atripalda, a small town built upon the ruins of Abellinum Marsicum, as a great number of mutilated bassorelievos, altars, and iscricpions attest”. E penso a Keppel Craven. “The abellinum of the Romans, the original town, of which a few ruins sill exist, stood a mile farther, near Atripaldi”. Atripaldi con la i, lo dico, Atripaldi con la i, così diceva Craven.

    Passeggio tra le rovine, il vento, il cardo il decumano. La domus, quello che resta, la domus, dicono, di Marcus Vspsanius Primigenius, liberto di Vipsanio Agrippa, genero di agusto. Una ricca dimonra patrizia con ricercate decorazioni e con stanze decorate con pitture su fondo rosso e disegni di elementi floreali riferibili allo stile pompeiano: una bellezza incredibile. Osservare stamattina un disegno di secoli e secoli fa, ancora intatto, il mio sguardo, un disegno, antiche civiltà scomparse, che vivono ancora e ancora soltanto per me, per chi le sogna. Eccomi nel tempo perduto, sotto lo stesso sole, la vita, la stessa vita, il mio corpo uguale al corpo di Silla, gli stessi pensieri, il mio corpo uguale al corpo di Marcus Vipsanus Primigenius, gli stessi pensieri. Essere i migliori, in età antica, piegare il mondo, questo mondo malato e lurido; piegare il mondo con lo forza e il disgusto mi assale. Perché respiro il tempo sbagliato, siamo nati troppo tardi. Io moderno, Silla moderno, Vipsanus Primigenius moderno: ogni uomo è moderno nell’epoca in cui vive. Lo diceva Concetto Marchesi. Moderni tutti, con la rabbia attaccata ai capelli.

     

     

     

     
    • Angelo 8:49 am il 24 Maggio 2018 Permalink | Rispondi

      Ciao Romeo,
      ormai da tempo accedo al tuo blog e leggo di te e elle tue storie.
      ê un modo per non perdere i contatti con la mia terra.
      Non sempre abbiamo le stesse idee ma quello che condivido è la passione per i Luoghi e lo sforzo (immane) nello spiegare cos’è l’Irpinia e da dove viene.
      Take care (‘abbaia a’ te!) e non mollare.
      Angelo

  • Romeo Castiglione 3:01 pm il 1 May 2018 Permalink | Rispondi
    Etichette: , dogana dei grani avellino, george harrison, obelisco carlo II d'asgurgo, palazzo de conciilis, tinayre, victor hugo   

    Avellino e i sogni di Victor Hugo 

    Con la macchina, come sempre. avanti ancora più avanti, la città, la mia città, via Francesco Tedesco, il sole di aprile sulle lenti nere, avanti ancora più avanti, sempre dritto. Il traffico, tutto questo traffico alle tre del pomeriggio con la musica di George Harrison nello stereo. Lo sguardo perso, la Torre dell’Orologio, la Dogana, l’obelisco di Carlo II d’Asburgo, il Duomo. Eccomi. Scendo dalla macchina, con il sole sulle lenti nere. Cammino da solo. I rumori, le voci. Cammino e non sento più nulla, soltanto silenzio incredibile, da fine del mondo. Un silenzio irreale.  Mi avvicino, guardo il Palazzo visto tante volte sulle fotografie. Avellino, oggi ti sto riscoprendo: sei bella. Come una donna che non si cura e nasconde il suo singolare fascino, un fascino inquieto. Guardo la facciata dello storico Palazzo De Conciliis, un palazzo del XVIII secolo.

    Avanti, a piedi. Una lapide in ricordo, in ricordo del perduto tempo: qui dimorò fanciullo /dal gennaio al luglio 1808 /prima di ascendere ai fastici  /della poesia / del romanzo e del dramma / Victor Hugo, qui dimorò il piccolo Victor tanti anni fa. Calpestava le pietre che io calpesto oggi e sembra di vederlo ancora, un poeta che conosce tutto di te, che non è mai morto, che vive ancora qui in Irpinia e che conosce George Harrison Hare Krishna con la mano, lo sguardo che fissa il mio, lui che sa tutto di me in questa Avellino che odora di Eterno. Riviere momenti mai vissuti, vissuti da altri uomini prima di me, qui, in questi luoghi incredibili. Piccoli passi, con un sole malinconico, un sole stanco di primavera.

    Mi ha portato qui il caso. Oggi pomeriggio. Il caso, soltanto il caso. Non so come, un colpo di fortuna forse, ho trovato un vecchio libro la settimana scorsa. Un vecchio testo in lingua francese, datato 1882, scritto da Victor Tinayre e dedicato a Victor Hugo bambino dal titolo “Victor Hugo enfant”. Un libro che ho letto e tradotto. Andiamo a rivedere, o meglio vedere meglio, il Palazzo De Conciliis.

    Sono appassionato di storia locale e adoro lo studio delle lingue: un libro del genere non lo trovi tutti i giorni. La nostra città, Avellino, appare tra le pagine ingiallite, una città bella, piccola, di provincia. L’autore, Tinayre, racconta nel libro i primi anni di vita di Hugo, il viaggio, il cammino lungo la strada della letteratura. Nelle prima pagine possiamo trovare la descrizione del viaggio di andata da Parigi ad Avellino, le cose che il piccolo Victor Hugo ammira; e ammira “il mare adriatico e Victor, che è già rapito dalle cose belle, ammira “i fiocchi d’argento che questo mare fa scintillare” e Napoli, i fiori sulle case, i fiori baciati dal sole, il mare azzurro, la terrazza. Un viaggio, lui, i suoi fratelli Abel ed Eugène, e sua madre: da Parigi ad Avellino dove li attende Joseph Léopold Sigisbert Hugo, generale francese nominato da governatore militare della città dal Re di Napoli Giuseppe Bonaparte, il papà di Victor.

    ”Il viaggio era lungo da Parigi ad Avellino”, così ha scritto Tinayre. La madre e i ragazzi arrivano ad Avellino, “la città delle nocciole avellane,  queste grosse nocciole, così buone, dove la mandorla è avvolta da una tunica rossa”. Il colonnello Hugo attende la famiglia in grande uniforme e poi c’è il Palazzo De Conciliis, questo Palazzo maestoso, bello da ammirare. «Un vecchio palazzo con delle scale, – scrive Tinayre -dei balconi, delle colonne di marmo. Uno scossone di terra aveva fatto qualche crepa sulle mura: ma bah! Faceva così caldo e quelle bocche di pietra sono molto adatte per giocare a nascondino. Davanti al palazzo, un grande spazio di terra tutto pieno di nocciole, andava in pendenza e formava un burrone profondo. Era perfetto per giocare ai soldati. Che felicità di correre attraverso i rami, di non andare più a scuola, di essere liberi come degli uccelli. I ragazzi passavano il loro tempo presso il burrone. Quando erano stanchi di correre e di divertirsi, montavano al palazzo dove si trovava la loro mamma che li tiene occupati a leggere, scrivere, a imparare a contare con delle grosse nocciole che loro rompevano dopo la lezione, e sgranocchiano sotto i denti belli Oh! Le belle maniere di apprendere a contare! Voi  volete bene, e molto, che la moda è venuta dalla scuola»,.

    Victor che gioca a nascondino. Un bambino agli inizi dell’800. Che adora le nocciole, le nostre nocciole ‘e nocelle. Che cosa buffa! Nocciole di tantissimi anni fa dallo stesso sapore, sapore immortale. Giornate passate in questo Palazzo grande, pomeriggi persi a giocare con le noccioli, piccoli che imparano a contare con le nocciole e poi le mangiano. Imparare a contare con le nocciole, giocare con le nocciole: uno due tre quattro… poi mangiare mangiare tutte le nocciole. Avellino,  i sogni di un fanciullo, correre dietro le stelle: colpire, afferrare l’inafferrabile. I sogni, quando io ero fanciullo “e tutto mi sembrava andasse bene tra me le mie parole e la mia anima” come canta Francesco De Gregori. Io che sognavo le stelle, come le sognava il piccolo Victor, stelle lontanissime, impossibili da raggiungere; imparare a resistere, resistere sempre e lottare, lottare tutti i giorni. Scrivere poesie… riempire pagine del diario… in un giorno che tornerà ancora, in un giorno vissuto nel passato e non da me.

    “I ragazzi erano così felici ad Avellino che mai avrebbero voluto lasciare questa città”. E ci credo. Tutto il giorno a giocare, a contare le nocciole, a correre tra le piante, a rincorrere un sole sempre eterno, lo stesso sole di oggi, che illuminerà domani e dopodomani. Dimenticare il presente e pensare al tempo perduto: correre lungo i bordi di un fiume con le scarpe sporche di terra e con i calzoni corti. Un fanciullo che si chiama Victor, che osserva il mondo, la gente, gli ultimi, i poveri.

    Soltanto silenzio e nulla più. Uno storico edificio in una città bellissima. Le cose belle, le nostre cose da mostrare al turista: il Palazzo fu costruito dall’architetto Luigi Maria de Conciliis. Pervenne alla agli inizi dell’800 a don Felice de Concillis che sposò Francesca Roma: la coppia ebbe una figlia di nome Michela, “donna bella, ricca e virtuosa”, così scrive lo storico Andrea Massaro.  Michela è ricordata per il suo amore per i poveri e per gli ultimi.Fu donato dalla Nobildonna Michelina de Conciliis all’Amministrazione comunale per destinarlo a “Centro preposto all’assistenza della maternità e dell’infanzia”. Adesso è di proprietà del Comune: è sede del Centro di ricerca meridionalistica Guido Dorso e di alcune associazioni culturali.

    Vado via, oramai è tardi, tardi per tutto. Ah, com’è strana la vita… un libro… quanti pensieri… pensieri e nocciole. Nessun rumore, soltanto i miei passi tra le ombre di cartone. Alla ricerca di un cantuccio, di una luce che è Storia, Storia che sopravvive e che esce dal passato, dal presente e dal futuro.

     
  • Romeo Castiglione 12:15 pm il 7 April 2018 Permalink | Rispondi
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    Volevo essere Imbriani 

    Venerdì mattina a Benevento, per vedere un film documentario dedicato a Carmelo Imbriani. Un film proiettato nell’aula magna dell’Università Giustino Fortunato. Tanta gente per onorare la memoria di un grande del calcio campano morto prematuramente a causa di un terribile male. Imbriani per me resterà sempre un ragazzo di vent’anni con la maglia azzura, quella del Napoli. Era il Napoli di Boskov, stagione 95/96. Un campione pronto per il successo: il gol contro l’Inter, contro il Brescia… un talento. Io, un bambino di dieci anni che sognava lo scudetto che non è arrivato più e che passava le domeniche attaccato alla radio.

    Andavo anche al San Paolo, per vedere il Napoli. Tempi passati: una storia chiusa. Il Napoli lo porto nel cuore, con le altre squadre campane. Però è una storia chiusa. Niente più stadio. Soltanto radio e televisione. E nel ’95 ha brillato al San Paolo la stella di Carmelo. Gol, emozioni. Soltanto un anno. Giocavo a casa con il mitico PC Calcio 4.0 95/96, in serie A con il Napoli e Imbriani segnava tanti ma tanti gol e in B con l’Avellino con il completo verde e con la Salernitana. Che ricordi!

    Una carriera in B e in C, quella di Carmelo. Una promessa mancata. Ha brillato una sola estate, come il Napoli, come l’Avellino, come la Salernitana, come il Benevento, come noi meridionali. Brilliamo una sola estate poi niente più; purtroppo è così. Anche io volevo essere Imbriani. Avrei voluto calcare i campi della serie A. Segnare un gol all’Inter, esultare sotto la curva B. Avrei voluto vestire la maglia del Benevento, la maglia giallorossa.

    Ma sono Romeo Castiglione. Un ragazzo che lotta e non si arrende mai, anche Carmelo ha lottato e non si è arreso. Fino alla fine ha lottato. Egli è un esempio per tanti ragazzi meridionali. Coltivare il sogno, assaporare la gloria poi perdere tutto senza mai alzare bandiera bianca. Lottare, lottare sempre

     

     
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