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  • Romeo Castiglione 2:20 pm il 27 September 2015 Permalink | Rispondi
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    De Marsico, storia di un monarchico liberale 

    Alfredo De MarsicoTrent’anni fa si spense Alfredo De Marsico. Trent’anni fa salutò la Terra un uomo legato indissolubilmente alla città di Avellino. Egli fu un grande protagonista del Novecento, un giurista di alto livello, un politico sobrio e battagliero. È tuttora considerato alla stregua di un “maestro”, di un “gemello di Minerva”; Enrico De Nicola lo definì “penalista emulo di Demostene”. Nacque a Sala Consilina il 29 maggio 1888. Arrivò in Irpinia in giovanissima età: frequentò diligentemente il Liceo Classico Pietro Colletta di Avellino. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza Federico II di Napoli, si laureò nel 1909 e divenne un avvocato di fama nazionale. Nello stesso anno, precisamente il 5 dicembre, esordì proprio avanti la Corte di Assise di Avellino; sostituì l’avvocato Domenico Sandulli in un processo. Parlò a braccio per ben tre ore: fu un arringa lunga e appassionata. Sempre nel 1909 pubblicò in città il primo saggio su San Francesco D’Assisi. Fu procuratore dal 1911 al 1917. Divenne successivamente professore ordinario presso le Università di Camerino, Cagliari, Bari, Bologna, Napoli e Roma. «De Marsico – scrive Luigi Labruna – è colui che più sintetizza la tradizione dei grandi giuristi del Mezzogiorno e la novità dell’ordinamento centrale, affermatosi con l’Unità d’Italia». E Sandro Setta nella Scheda del “Dizionario Biografico degli italiani” dice in riguardo del politico e giurista campano: «Istintivamente portato all’oratoria, pronunziò il suo primo discorso a 17 anni, per l’inaugurazione ad Avellino di un monumento a F. De Sanctis (1905)».

    Il penalista di Sala Consilina si avvicinò alla politica in punta di piedi. Ancora adesso è un esempio. Si distinse per la pacatezza, per la ottima arte oratoria, per l’acume, per lo stile elegante. Nel corso della prima guerra mondiale tenne alcune conferenze dedicate a Cavour, Garibaldi; simpatizzò in quel periodo per Salandra e per D’Annunzio. Fondò ad Avellino un circolo di destra liberale. Fu attirato dal mito del duce: inquadrò Mussolini come un restauratore dell’Ordine. Fu eletto deputato per la prima volta alla Camera dei deputati con il Listone Fascista nel 1924. «Nelle elezioni del febbraio precedente – scrive Andrea Massaro su Giornaleirpinia – il “listone” ebbe un notevole successo eleggendo al Comune personaggi di primo piano della città come l’on. Alfredo De Marsico e altri intellettuali». Rimase in parlamento per ben cinque legislature: infatti, fu rieletto alla Camera nel 1929 e nel 1934. Nel 1939 divenne consigliere della Camera dei Fasci e della Corporazioni; fece parte della commissione parlamentare per la riforma dei codici e collaborò alla stesura del Codice Rocco. Il 6 febbraio 1943 divenne Ministro di Grazia e Giustizia; subentrò a Dino Grandi. Il duce concesse al politico campano l’appellativo di “fascista liberale”. «Alfredo De Marsico – scrive Emma Moriconi sul giornale d’Italia – è indubbiamente un personaggio di tutto rispetto del regime, sebbene sia uno dei firmatari dell’Ordine del Giorno Grandi che destituisce Mussolini, ne sia anzi uno dei promotori e certamente colui che ne fa un documento accettabile – sotto il profilo giuridico – anche dagli altri 18 firmatari. Anzi, 17, considerando che Tullio Cianetti ritira la sua adesione dopo solo poche ore». De Marsico così motivò il suo voto a favore dell’Ordine del giorno Grandi: «Se inizialmente il fascismo era un movimento rivoluzionario diretto al ripristino delle forze conservatrici in grado di ripristinare l’equilibrio politico e la dignità del Paese, la frattura con il popolo italiano e col re era oramai insanabile». Egli riconobbe una frattura tra il fascismo e il popolo, tra il Partito e la Nazione. Praticamente per De Marsico il Fascismo fallì la sua missione. Da un lato il fascismo; dall’altro il popolo con il suo re. È questo, in linea di massima, il suo pensiero. «Se la situazione fosse stata insostenibile, – disse De Marsico – poiché i popoli non hanno diritto di suicidarsi, sarebbe stato doveroso… scegliere una via onorevole per non immolarsi al sacrificio».

    In seguito alla caduta del Fascismo e alla nascita della Repubblica continuò a fare politica. Si iscrisse con fede nel Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli. A causa dei suoi trascorsi fascisti rimase lontano dall’insegnamento per ben sette anni e per un quadriennio non praticò l’attività forense. Fu riammesso negli ambienti accademici soltanto nel 1950 grazie anche all’appoggio di Mario Berlinguer, padre del segretario del PCI Enrico. Tornò in Parlamento nel 1953, nell’anno d’oro del PNM. Fu eletto in senato. Nell’anno successivo abbandonò Covelli e seguì Achille Lauro nel Partito Monarchico Popolare. Lasciò così il gruppo del PNM ed entrò nel gruppo misto; nondimeno rimase in parlamento soltanto per una legislatura. Si ricandidò nel 1958 ma non fu rieletto. Continuò a sostenere le idee conservatrici e tenne alcune interessantissime conferenze su Trieste italiana, sulla Regina Elena e sul centenario dell’Unità d’Italia nel 1961. Nell’ambiente politico è ricordato anche come il “monarchico liberale”. Fu un fervente sostenitore della dinastia Sabauda, nonché un conservatore d’altri tempi. Esaltò sempre il Risorgimento e l’Unità della Nazione, pertanto sorresse sempre Casa Savoia. Egli sembra che sia sospeso a metà strada tra Cavour e Francesco Crispi. Forse si infatuò del famoso motto di Crispi: «La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe». Fu un punto di riferimento per i monarchici e per la destra moderata. Non è un caso che il politico campano sia stato stimato anche da alcuni membri del Partito Liberale Italiano e dai missini. Se la destra italiana fosse uscita dal ghetto negli anni ‘50, De Marsico l’avrebbe rappresentata degnamente nei governi. Egli sarebbe stato sicuramente un leader riconosciuto da tutti. Sarebbe stato un nome spendibile. Si annida nei suoi scritti l’ammirazione verso il Fascismo e Mussolini. Criticò la massa, i falsi miti; elogiò la Tradizione ed espresse la sua preoccupazione per il tramonto dell’occidente. Nelle vibranti pagine c’è un pizzico di Spengler, de Bonald, Burke.

    Fu, anche, presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli fino al 1980. Fu nominato cittadino onorario di Avellino negli anni ’60 e presidente onorario del Foro di Avellino, Santa Maria Capua Vetere e Sala Consilina. Grazie alla sua fede monarchica fu nominato cavaliere di Gran Croce dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Fu insignito di una medaglia d’oro dall’Ordine degli avvocati di Lucerna. Lavorò fino all’età di 92. Nel suo ultimo processo difese Angelo Izzo, imputato per la strage del Circeo del 1975. Morì l’8 agosto 1985. Nei giorni successivi alla sua morte fu posto un suo busto a Castel Capuano: il presidente dell’ordine degli avvocati, Renato Orefice, tenne un commovente discorso funebre. Un busto di De Marsico fu collocato anche nella sala del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. Sono stati scritti in suo onore diversi libri biografici e non. Molto interessante è il volume di Vittorio Valentino intitolato “Alfredo De Marsico, giurista, avvocato, oratore, gloria della scuola forense napoletana”. Non meno importante è il volume di Giuseppe D’Amico “Alfredo De Marsico: il mago della parola”. Nel 2006 si è tenuto a Napoli un convengo in onore del politico e giurista campano; gli atti del convengo sono raccolti all’interno di un volume curato da Carla Masi Doria e Massimo di Lauro.

     
    • Severino Garofano 6:32 PM il 29 settembre 2015 Permalink | Rispondi

      Sono un Irpino verace nato a San Potito Ultra. Negli anni cinquanta frequentavo la Scuola Enologica di Avellino.
      Ho conosciuto il grande giurista Alfredo De Marsico al Tribunale di Avellino. Era in contraddittorio con Francesco Carnelutti. Insieme al mio fraterno amico Giovanni più di una volta si andava ad ascoltare al tribunale le loro arringhe. Un giorno il grande De Marsico parlò per molte ore. A quei tempi anche le dispute tra persone di cultura costituivano l’occasione per accrescere la conoscenza della dialettica civile. Sostituivano anche la carenza dell’istruzione scolastica, deficitaria di grammatica e sintassi.
      Mi complimento con questo blog che ricorda un gigante, un uomo di cultura e di dottrina per difendere la verità.
      Grazie per tutto quello che pubblica il blog di Romeo Castiglione.
      Severino Garofano

  • Romeo Castiglione 9:04 am il 31 May 2014 Permalink | Rispondi
    Etichette: , ago della bilancia, , , centrodestra moderno, corporativismo, , , destra monarchica, dio re e popolo, elezioni 1958, lega d'azione meridionale, leghismo, leghismo meridionale, ministero partecipazioni statali, partiti monarchici in italia, , , pmp, , ,   

    Il Partito Monarchico Popolare 

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    L’armatore Achille Lauro creò nel 1954 un movimento politico energico: fu un esperimento interessante, coinvolgente, raziocinante. Il Partito Monarchico Popolare rappresentò gli ideali di una destra emancipata. È importante rileggere il trascorso per esaltare le proposte più intriganti; per di più è necessario percorrere, senza ripensamenti, la strada del revisionismo. La meta ultima è la ricerca della verità. La scissione dal PNM di Alfredo Covelli fu necessaria. Penso che la nascita del PMP sia stata dettata da valutazioni ponderate.

    Il Comandante volle inserire il suo “giocattolo” all’interno delle dinamiche politiche. Egli tentò in tutti i modi di salvaguardare il suo prestigio: fu un politico concreto. Percepì l’esigenza di allungare una mano alla Democrazia Cristiana; nello stesso momento fu animato da ideali peronisti, da aspirazioni velleitarie. Certo, in politica contano i numeri ed è impossibile ribaltare lo stato di cose con un consenso ridotto. Lauro, al contrario di Covelli, non contrastò mai il “bipolarismo imperfetto”; spese le sue energie per arginare, nei limiti del possibile, l’avanzata comunista. Non rincorse la chimera effimera dell’alternativa di destra; supportò dall’esterno i governi centristi al fine di tutelare la libertà e il benessere. Praticamente fu un pioniere del centrodestra moderno. Il suo PMP si inserì nel sistema per ottenere la libertà di manovra sul territorio. E per un breve periodo fu l’ago della bilancia. Il programma fu impostato in modo romantico e furono esaltati i valori tradizionali: sui manifesti comparve il motto “Dio, Re e Popolo” e a più riprese fu invocato il ritorno della monarchia. Fu auspicata finanche l’abrogazione del ministero delle partecipazioni statali.

    Ebbene il monachismo del PMP fu vibrante, mediterraneo, passionale. Il movimento riprodusse le aspirazioni di un meridione oppresso, dimenticato. Pertanto riuscì ad ottenere un grande consenso. Insomma, fu un forte partito personalizzato, interclassista, intraprendente, meridionalista, autonomista, leghista, pragmatico, sbarazzino, aperto al confronto, non arroccato nei castelli ideologici. Emergono alcune flebili similitudini tra il PMP e la Lega d’Azione Meridionale dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito. Si annidano taluni leggeri paragoni perfino con l’UDEUR. Il partito monarchico laurino fu “popolare” e non “nazionale”; fu un partito di popolo ma non di massa, comunitario, leaderistico, nostalgico, moderato ed estremista, liberista e assistenzialista. I leoni disegnati nel simbolo ruggirono in nome del rampantismo.

    In sostanza fu un tentativo intrigante e concreto. Il PMP figurò una proposta innovativa, non intransigente. Si collocò in una posizione intermedia tra il PNM e la DC; tentò di svolgere la funzione di cerniera e desiderò la legittimazione. Incardinò le aspirazioni di una destra avanguardista, non ideologica, monarchica e conservatrice, anticomunista e filo democristiana. Il derby monarchico fu vinto proprio dalla formazione laurina: alle elezioni del 1958 il PMP ottenne il 2,6% contro il 2,2% del PNM. Penso l’esperienza del PMP sia stata volutamente dimenticata dalla destra italiana. Come sempre, preferisco navigare controcorrente ed elogio i “leoni e la corona”. Purtroppo la damnatio memoriae ha velato di nero un progetto vincente.

     
  • Romeo Castiglione 11:01 am il 22 April 2014 Permalink | Rispondi
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    Elogio del laurismo 

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    A bordo del glorioso “Navigatore” il Comandante trascorse alcuni mesi eroici. Il veliero solcò le infinite acque dell’Oceano Atlantico e trapuntò simpatiche fluorescenze marine. Fu un viaggio d’iniziazione. Una matita fantastica tracciò un itinerario dal sapore esotico: comparve il Messico con il turbinio della siesta e dei sombreri all’ombra; spuntò New Orleans con il barbaglio notturno e languido del Jazz. Infine si riuscì a intravedere la città di Bordeaux. Nacque il quel trambusto il mito di Achille Lauro. Il celebre armatore riuscì a cavarsela alla stessa maniera di un protagonista dei romanzi d’avventura, di un portainsegna del mondo ottocentesco dileguato. E la gioventù del Nostro odora di forestierismo: tra le pieghe dei giorni andati c’è il riverbero dell’Oriente, delle odalische, del narghilè. C’è Buenos Aires: c’è lo stile noir di un uomo d’azione.

    Queste suggestioni sono affiorate dopo aver letto il libro “Achille Lauro superstar” di Achille Della Ragione. Distrattamente ho curiosato tra le mie cose ed ho ritrovato le pagine di un volume intrigante e appassionante. La vita di Lauro è esposta in maniera elegante: effettivamente in mezzo alle pieghe dei capitoli è presente una narrazione splendida; l’autore è riuscito a inserire il Comandante in un contesto esaltante. Così si snocciola una sequenza insolita pregna di aneddoti, dati e notizie. Sono evidenziati i momenti più eroici dell’avventura del sindaco: è messo in risalto il suo acuto spirito imprenditoriale, il suo decisionismo. Grazie a tali peculiarità riuscì a far risorgere la sua flotta: le idee non mancarono mai. Le sue navi trasportarono il carbone dell’Inghilterra nei porti pugliesi. Si dedicò finanche allo sport. Nel 1938 divenne il presidente del Napoli calcio e regalò un sogno alla città. Acquistò l’asso svedese Hasse Japson per 105 milioni e il grande fenomeno brasiliano Louis Vinicio.

    Ovviamente oltre l’effimero è dipinta la caparbietà politica. Nel primo dopoguerra cercò vanamente un contatto con la Democrazia Cristiana; quindi si avvicinò all’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini e riuscì a conquistare un grande prestigio: il governo De Gasperi evitò la sfiducia grazie all’intervento provvidenziale del Comandante. In seguito a ciò egli s’iscrisse al Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli e pianificò la sua ascesa personale. Il resto è storia. Nel 1952 vinse le elezioni amministrative nella città partenopea e visse il suo periodo di massimo splendore. Fu un sindaco animato dal paternalismo di vecchio stampo. In virtù di ciò fu criticato ampiamente dalla sinistra.

    Il sindaco fu molto pragmatico: pertanto non fu capace di istaurare un rapporto sereno con Alfredo Covelli. L’uomo di Bonito dedicò la sua vita alla costruzione di una grande destra democratica di governo; Lauro all’inverso sondò tutte le strade al fine di salvaguardare il suo prestigio. La scissione rappresentò un vero spartiacque per l’ambiente monarchico. Certo, la spaccatura produsse soltanto una dispersione di voti; tuttavia nemmeno in seguito alla riappacificazione e alle genesi del Partito Democratico Italiano le cose andarono meglio. Covelli e Lauro furono divisi da un disuguale giudizio nei confronti della DC. Il primo si pose in contrapposizione netta con lo scudo crociato: fu un antidemocristiano convinto; il secondo, invece, smussò i rancori in nome dell’anticomunismo. Insomma, Alfredo Covelli esaltò le divergenze tra Stella e Corona e la Democrazia Cristiana; Lauro, all’inverso, le convergenze. E non è una cosa da poco. La strategia laurina richiede una maggiore considerazione: il partito dell’Armatore propugnò una sorta di “alternativa nel sistema” a differenza dell’alternativa al sistema sostenuta da Covelli.

    Il laurismo rappresentò gli ideali di una destra nazionalpopolare da rotocalco. Fu una destra emancipata, sprezzante verso gli intellettualismi, libera da ogni pregiudizio. Paradossalmente fu una destra possibile poiché non fu preclusiva, bensì aperta verso gli altri. Il Partito Monarchico Popolare riprodusse un esempio di populismo meridionale infarcito di idee paleo leghiste; il movimento riuscì a competere con le altre forze in virtù del suo svincolato realismo. Lauro appoggiò finanche Nicola Salerno, un candidato Socialdemocratico, nella penisola sorrentina. Il PMP ottenne un ampio consenso in Campania, nel Lazio, in Sardegna e in altre regioni. Nell’isola dei quattro mori portò una ventata di novità. La gente ammirò lo spirito combattivo del leader e in breve tempo iniziò a riempire le sedi del movimento. Credo che la nascita del partito laurino abbia rappresentato un momento di libertà all’interno della destra italiana. Fu un esperimento singolare e coinvolgente.

    Ad ogni modo nel libro di Achille Della Ragione ho colto diverse sfumature particolari. Fra le tremolanti pagine è messo in evidenza l’incontro fortuito tra il Comandante e il democristiano Gonella nel Santuario di Pompei, in un ambiente ascetico e pregno di aromi legati al mondo della Tradizione. Ho immaginato a lungo il riflesso di quella storica discussione; gli ambienti solenni e immortali del luogo sacro donarono all’evento un tocco liturgico. E sottilmente la poesia prende il sopravvento sulla quotidianità alla stregua di un vortice magmatico.

     
  • Romeo Castiglione 8:44 am il 10 March 2013 Permalink | Rispondi
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    L’antesignano di una destra moderna 

    Alfredo Covelli1Articolo pubblicato sul  quotidiano “Il Sannio” e sul sito “Politica magazine

    Il ricordo di Alfredo Covelli a novantanove anni dalla nascita

    Il Passo di Dentecane evoca scenari particolari e muove la fantasia alla ricerca di racconti ammalianti. Appunto si narra di una leggenda epica accarezzata dal vento. Certo, non è facile scindere la realtà dalla fantasia; tuttavia è bello immaginare che sia vero. In quel silenzioso luogo Alfredo Covelli all’indomani dell’esito referendario tra Monarchia e Repubblica, come scrisse Giovanni Acocella nel suo libro “Notabili e istituzioni”, tentò di radunare i sudditi fedeli alla Corona rimasti senza Re; alla stregua di un cavaliere errante, di un paladino della causa sconfitta.

    Il 22 febbraio è caduto il novantanovesimo anniversario della nascita di Covelli. Il leader del PNM sarà ricordato sempre per la lungimiranza politica; il suo pensiero è ancora oggi dibattuto e analizzato dagli storici. Covelli riuscì a vedere il futuro. Per davvero. Mise le basi per la costruzione di una destra innovativa, senza preclusioni. Questo sicuramente è un merito che gli va riconosciuto.

    Nacque a Bonito nel 1914; si laureò in Lettere, in Giurisprudenza e in Scienze Politiche. Negli anni trenta insegnò greco e latino allo storico liceo classico “Pietro Giannone” di Benevento.

    Fortificò la fede monarchica nell’ottobre del 1943 dopo aver visto Vittorio Emanuele III da solo al porto di Brindisi. Quel colloquio così melanconico e così languido forgiò ancor più lo spirito devoto del Nostro, sempre ardimentoso e sempre attaccato alla Patria. Prese parte alla Seconda Guerra Mondiale con il grado d’ufficiale dell’aeronautica militare e tornò a casa con una decorazione al valore militare.

    Partecipò alla costituente con il Blocco Nazionale per la Libertà, un raggruppamento conservatore e liberale. Subito dopo la sconfitta referendaria del due giugno 1946 fondò il Partito Nazionale Monarchico e ne divenne il segretario; fu eletto alla Camera dei Deputati per la prima volta nel1948. Covelli fu un arcigno sostenitore della dinastia Sabauda; intravide nel saluto del Re Umberto II in partenza per l’esilio un messaggio di speranza.

    Dopo la campagna elettorale del 1948, il partito si contraddistinse per una chiara presa di distanza nei confronti della DC. Ciò fece del PNM un partito anti potere: nel 1958 i monarchici riuscirono a vincere anche ad Avellino con Olindo Preziosi. In Irpinia e nel Sannio si perpetuò lo scontro con lo Scudo Crociato. Questa contrapposizione si acuì ancora di più, quando Fiorentino Sullo per battere gli avversari tentò uno sfondamento nella Coldiretti e introdusse la classe medica in politica. Tuttavia in quel periodo il partito della Stella e Corona si fregiò della presenza di personalità di spessore come Emilio D’Amore e Alfredo De Marsico.

    Covelli ha creduto fermamente nel principio monarchico e non l’ha mai barattato. La cosiddetta “Opposizione nazionale” portata avanti dal partito tratteggiava rigorosamente la difesa, estenuante dell’istituto deposto dal referendum. Così come ha prestato fede fortemente nel principio democratico. Ha continuamente definito il suo partito “democratico, popolare e d’opposizione”.

    Fu uno schietto uomo delle istituzioni. Nel Parlamento riponeva le più alte aspettative. Fu un fermo oppositore del centrismo degasperiano: ipotizzò il suo superamento nell’ambito di una riorganizzazione dell’assetto politico generale. Il centrismo, in pratica, precludeva ai monarchici la possibilità di un inserimento nel contesto nazionale. Già negli anni sessanta paventava la nascita di una forte destra moderna e liberale con la vocazione del governo. Sognava una destra responsabile, rigorosa e democratica: immaginava il futuro a occhi aperti. Nel 1967 promosse un’iniziativa d’area rivolta al Movimento Sociale e al Partito Liberale: cercò un dialogo al fine di far nascere un’intesa tra le forze non marxiste per la genesi della Costituente democratica nazionale. Nel suo bagaglio personale non è mai mancato il rispetto per la democrazia, valore che ha perpetuamente indicato la strada maestra. E in questo fu pragmatico, poiché si schierò apertamente a favore del Patto Atlantico per tutelare la libertà e si allineò su posizioni europeiste. Fu componente della Rappresentanza parlamentare al Parlamento Europeo nella quinta, nella sesta e nella settima legislatura. Per Covelli l’Europa unita ha rappresentato certamente un traguardo notevole. Nei comizi e negli interventi parlamentari non mancarono i richiami alla Cattolicità, inquadrata come trave principale della società italiana; sono ben note le sue arringhe a difesa della Religione contro la sinistra.

    Contrastò con sagacia il regionalismo, poiché secondo la sua visione minava alla stabilità e all’Unità della Nazione nata dal Risorgimento.

    Attraverso le capacità del leader, il partito riuscì addirittura a portare in Parlamento quaranta deputati e diciotto senatori negli anni cinquanta. Ciò nondimeno il movimento s’indebolì dopo la scissione perpetuata dall’Armatore napoletano Achille Lauro: il “comandante” nel 1954 abbandonò il PNM per fondare il Partito Monarchico Popolare. La decisione scaturì in base ad alcune divergenze. Covelli, come detto, mirava alla costruzione di una destra di governo; Lauro, invece, paventava un’alleanza con la Democrazia Cristiana. D’altro canto le due figure furono antitetiche fra loro e, per certi aspetti anche agli antipodi. Il primo fu un politico sobrio, imperterrito e paladino dell’Ideale; il secondo incarnò la figura del populista, amato dal popolo, soprattutto da quello della sua Napoli. La frattura si sanò nel 1959. Il Partito Democratico Italiano d’Unità Monarchica nacque dalla fusione dei due schieramenti; ma la lista non portò i risultati sperati. Alle elezioni politiche del 1968 il PDIUM ottenne 414,507 voti alla camera e 312,621 al Senato che produssero l’elezione di sei deputati e di due senatori.

    Ciò spinse Covelli verso la ricerca di nuove mete. Nel 1972 si materializzò una parte del disegno agognato da anni: germogliò la Destra Nazionale grazie all’intuizione politica di Giorgio Almirante. Così fece confluire la sua formazione all’interno del Movimento Sociale Italiano ribattezzato MSI – DN e ne divenne il presidente. La “grande destra” cominciò a muovere i suoi primi passi. Una delle prime battaglie fu quella per la casa: con quest’operazione il partito riuscì a inglobare una piccola parte di voti provenienti dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Nel 1976 aderì a Democrazia Nazionale, partito sbocciato dalla corrente moderata del Movimento Sociale per opera di Ernesto De Marzio. Il gruppo della “coccarda” cercò una fuoriuscita dalle secche di una destra legata ancora al passato. L’ingresso in Democrazia Nazionale fu la normale evoluzione del percorso intrapreso in concreto da sempre; Covelli prima di lasciare il MSI scrisse una lettera di dimissioni rivolta ad Almirante, nella quale costatò l’impossibilità di una sintesi armonica tra le varie anime del partito. Ma le speranze riposte nel nuovo soggetto politico furono spazzate via dalle elezioni del 1979. I demonazionali, nonostante l’esito elettorale, portarono in politica un’offerta affascinante ed intrigante; anticiparono i tempi e forse proprio per questo motivo non ottennero i risultati sperati. Dopo questa esperienza Alfredo Covelli si ritirò pian piano dal panorama politico. Fu nominato Presidente Onorario della Consulta dei Senatori del Regno dal Capo di Casa Savoia il 15 maggio 1998; morì il giorno di Natale dello stesso anno.

    Gianfranco Fini ha intravisto nel leader di Bonito ascendenze culturali che prendono spunto dal conservatorismo inglese. Probabilmente è possibile scorgere un sedimento del suo pensiero anche nella cultura di governo nord europea. C’è un sottilissimo filo che lega, seppure in modo flebile, Covelli allo svedese Gösta Bohman e al suo Partito Moderato Unito.

    Il politico di Bonito fu un grande uomo del Sud, legato a valori immutabili nel tempo. Fu un ottimo oratore, un leader pacato; concepì continuamente l’attività parlamentare come una missione e non come una professione. Indubbiamente oggi è quantomeno necessario riscoprire lo spessore morale del pensiero covelliano per proporre le idee più interessanti, quelle che non sono state sconfitte dal tempo, quelle che hanno segnato il cammino della nuova politica.

     
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