Il Giardino d’Italia, Malpica e l’Irpinia 

cesare-malpica

Ombre, luci, colori, Mare Adriatico, case mediterranee, donne bellissime. “Il Giardino d’Italia Le Puglie” di Cesare Malpica è un’opera incantevole, una piccola pietra preziosa, un racconto di viaggio. Pagine intense, storie, descrizioni minuziose, piccolo gioiello, desiderio d’Oriente. Un viaggio, un viaggio da Napoli alla Terra d’Otranto, la Puglia tutta, la Puglia magica, fiabesca. Itinerario da sogno, strade antiche, visioni celestiali. C’è anche l’Irpinia nelle poetiche pagine del libro: c’è Monteforte, Avellino, Pratola, Grottaminarda, Ariano. Racconto del viaggio da Napoli al tacco dello Stivale; paesi irpini, della Capitanata, della Terra di Bari. Letteratura di viaggio, brezza levantina, desiderio esotico. E poi le donne… tarantine incontrate nelle locande, in carrozza, a Canosa. Stupende, belle come il sole. E c’è anche la donna della montagna “al limitare di Monteforte”, in una “casuccia bassa”. Donna della montagna come divinità irpina. Incontro particolare tra il poeta e questa umile donna. Bellissima descrizione, poetica descrizione.

Cesare Malpica nacque a Capua il 2 aprile 1804. Fu giornalista, avvocato e poeta. Liberale, partecipò alla rivoluzione dei filadelfi nel 1828. Nel 1830 si trasferì a Napoli e collaborò con periodici come Poliorama Letterario; fu redattore unico del Giornale de’ giovanetti e del Giornale delle madri e dei fanciulli: si dedicò all’attività giornalistica e descrisse le sue impressioni durante i viaggi nelle provincie del Regno delle Due Sicilie. Nel 1848 si schierò a favore del costituzionalismo napoletano accanto a Pasquale Stanislao Mancini. Maplica morì a Napoli il 12 dicembre 1848.

Ho letto tutto di un fiato il Giardino d’Italia. Mi ha affascinato in modo particolare quella donna della montagna in quella casa nei pressi di Monteforte. Ho fantasticato abbastanza. Sì perché ho accostato questo frammento ad altre pagine di scrittori importantissimi, di scrittori di altre epoche. Storie diverse, stesso animo. «Al limitare di Monteforte – scrisse Cesare Malpica – v’è una casuccia bassa, lurida, dal tetto crollante, dalla soglia ingombra di fango. Un denso fumo esce fuor dalla porta, e ingombra e annerisce ogni di più le travi della soffitta e delle pareti. Dentro a manca della porta v’è un po di paglia ammonticchiata – questo canile è il letto – di fronte v’è una rozza tavola con sopra qualche vaso di creta – queste son le suppellettili – presso al canile v’è un cerchio formato con pietre; in mezzo arde un tronco di albero; e sopra, pendente da un uncino di ferro una piccola caldaja, in cui s’ode il gorgogliare dell’acqua che bolle – da un chiodo conficcato nel muro pende una lucerna di ferro, il di cui lucignolo acceso spande un chiarore come di lampada sepolcrale in mezzo alla spessa nube che s’addensa intorno – Su quella poca paglia dorme un fanciulletto metà nudo, metà ricoperto da un cencio di lana. Presso al fuoco seduta sovra uno sgabello di legno sta una donna intenta a gettar dal pugno ricolmo non so che roba nell’acqua. E canta costei – canta una canzone che è ad una volta amore, e preghiera, gioja e lamento, timore e speranza – e la canta con tale una voce soave, che tu scemi come tutti que’ sentimenti provati dall’anima, passan da questa sul labbro -. Oh le nostre damine non han quest’accento che emana dal fondo del cuore. I trilli e i passaggi ritraggon l’arte, ma non la verità – Ad ogni strofa si tace un po e mentre colla mano che tiene un rozzo ramajuolo rimescola ciò che è nella caldaja, coll’occhio guarda il fanciulletto, come per vedere se si desta. […] – e però io m’appresso senza cerimonie alla soglia della casa del povero – Solete levarvi ben per tempo o buona donna? Senza essere né meravigliata né impaurita dall’arrivo d’un uomo intabarrato fino agli occhi, con un berretto Greco posto un po di sghembo, essa si volge, e: mi levo ordinatamente a mezza notte risponde – Vi disponete ad uscire al lavoro? – Si, quando sarà tornato mio marito che travaglia alle Calcare – Vi sta in ogni notte? – Quasi in tutte durante questi mesi o Signore – E poi? – E poi mangiato che avrà questo po di polenta usciremo insieme, egli per tagliar legna, ed io per ajutarlo, e trasportarle – […] E questo che dorme è figlio vostro? – M’è nipote. La povera mia Sorella già vedova accomandommelo morendo dal dolore d’aver perduto l’uomo che la sosteneva. E noi lo teniamo a casa da quel dì […] – Voglio darvi qualche moneta perché compriate un po’ di merenda a vostro nipote – Oh per amore del Cielo astenetevene; mio marito mi sgriderebbe. – Sta bene; permettete almeno che io la ponga tra le vesti del fanciullo. – Vale lo stesso… deh Signore… Non v’è alcun male… […] Io mi allontano, e la donna ricomincia la sua canzone».

C’è tanta poesia. Luce fioca, fumo, paglia, lucerna, polenta. Una ragazza povera in una casa irpina. Maplica è attratto da lei, addirittura si avvicina alla soglia della casa. Lo fa “senza cerimonie” e dona qualche moneta al fanciullo. La Madonna e Gesù bambino in una povera dimora. Fanciullo sulla paglia e donna seduta sopra uno sgabello. Immagine sacra. Queste righe di Maplica mi fanno sognare. Né meravigliata né impaurita, donna della montagna come la vergine Maria e Cesare Malpica come l’arcangelo Gabriele. «Riconosci la Vergine dalla sua verecondia, – scrisse Sant’Ambrogio nel commento al vangelo di Luca II 7,8 – riconosci la vergine dalla sua risposta, riconoscila dal mistero che in lei si compie. […] Maria se ne stava tutta sola nelle sue stanze segrete dove nessun uomo poteva vederla, ma solo un angelo scoprirla: e mentre se ne stava da sola senza presenze indiscrete per non contaminarsi con chiacchiere grossolane, viene salutata dall’arcangelo».

Una donna povera che canta una canzone antica e un bambino. Forte è il fascino. La donna che canta e il bambino che dorme o piange (sulla paglia come Gesù o in una culla): due statuette del presepe. Accosto timidamente queste righe a quelle meravigliose di Mario Rigoni Stern dedicate alla ragazza russa e al bambino nell’ibsa; ragazza russa e il bambino nel bellissimo romanzo “Il sergente nella neve”. «Nel pomeriggio – scrive Rigoni Stern – c’erano nell’isba solo una ragazza e un neonato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolavano come barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lì vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola». Dall’Irpina alla Russia, dalla casuccia bassa all’ibsa. Epoche diverse. Cantano sempre le donne, cantano, lavorano e guardano i bambini. Tramontano le epoche ma splende sempre il solito sole.